Un 25enne inglese

Si risveglia dopo 2 anni dal coma e si crede una star del cinema

Si risveglia dopo 2 anni dal coma e si crede una star del cinema
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Il Mirror ha dato notizia di un venticinquenne inglese che, in coma dall’agosto del 2012, si è risvegliato parlando francese e credendosi l’attore americano Matthew McConaughey (The Wolf of Wallstreet, Dallas Buyers Club, ...). Rory Curtis, barbiere di 25 anni e promessa della lega semi-pro di calcio del suo Paese, stava percorrendo un’autostrada quando, durante un temporale da tregenda, tamponò un camion. Le sei auto che lo seguivano gli finirono addosso e i Vigili del Fuoco impiegarono tre quarti d’ora a estrarlo dalle lamiere. Trasportato in elicottero al Queen Elizabeth di Birmingham, gli furono  riscontrate diverse lesioni e numerosi ematomi cerebrali. Sembrava ormai spacciato, quando un farmaco sperimentale gli permise di riprendere coscienza. Beato lui che ha trovato medici in gamba (e tenaci) e genitori disposti a rischiare con loro una terapia da “o la va o la spacca”.

La cosa strana, si è detto, è che al momento del risveglio il ragazzo pensava di essere Matthew McConaughey, al punto che quando si trovò per la prima volta davanti allo specchio non capì cosa gli stesse succedendo. Dunque non soltanto pensava di essere l’attore texano: si immaginava anche in possesso dei suoi connotati fisici.

«Lentamente col tempo che passava ho realizzato che c’era qualcosa che non andava, e pensavo ‘Lui è un attore, cosa sto pensando?’,» racconta. «Ma a volte ero in ospedale e pensavo che non vedevo l’ora di essere dimesso e di tornare sul set a girare film. Ero convinto di essere lui, e di avere anche il suo aspetto».

Non è raro trovare qualcuno che pensi di essere un altro. Ma quando si pensa di essere un attore è difficile, per un medico, capire se l’identificazione è con la persona dell'attore o con uno dei personaggi cui ha dato vita sullo schermo. Da quel che Roy ha raccontato sembra più probabile il primo caso.

C’è anche un’altra stranezza, nella vicenda: il sosia di McConaughey parlava francese, una lingua che aveva smesso di studiare alle medie e che - dice - non conosceva nemmeno troppo bene. Adesso, invece, non solo la parlava in maniera fluente, con un accento perfetto, ma si atteggiava in tutto e per tutto come un francese, tanto da indurre l’infermiera che ne aveva raccolto le confidenze a domandare ai genitori in visita da che parte della Francia provenissero. «Stavo lì seduto a parlare dal mio letto d’ospedale comportandomi come un francese, nel loro modo arrogante ma al contempo sofisticato. Non ero me stesso». Dunque si comportava come un francese visto dagli inglesi, il povero Roy.

E questo è un classico. Quando pensiamo di “essere qualcun altro” in realtà ci identifichiamo nel “qualcun altro come noi lo pensiamo”.

Casi come quello di Roy da una parte fanno tirare un sospiro di sollievo perché ci permettono di sperare che se anche ci arrivano addosso tre suv, due station-wagon e una berlina riescono comunque a tirarci fuori vivi; dall’altra ci regalano un sorriso per la loro stranezza. Ma come disse una volta Eugenio Borgna - il grande psichiatra - gli handicap (e le sofferenze psichiche in genere) vengono date a qualcuno che sia in grado di sopportarli per segnalare a tutti gli altri di che cosa soffrono senza rendersene conto.

Se ci facciamo attenzione, noi tutti viviamo la gran parte del tempo pensando di essere qualcun altro o qualcos’altro. Ma in genere ci identifichiamo a tal punto con questo alter ego da scartare immediatamente tutti i segnali che ci avvertirebbero dell’errore. Quando qualcuno si ostinasse a riportarci in carreggiata potremmo anche dargli del matto. Il bello della vicenda di Roy è che - dopo un primo momento di esitazione - ha creduto allo specchio, non l’ha accusato di complottare contro di sé.

Il secondo motivo per cui questa vicenda è consolante è l’uso del francese da parte di un soggetto inglese che pensava di essere un texano. Il suo ribadire di averlo studiato tanti anni prima e non da studente modello sottolinea ancora una volta - e magari ce ne ricordassimo più spesso - che dentro di noi sono sedimentate molte più memorie di quanto crediamo. Ma, come succede a chi non tiene ordinato il proprio computer, facciamo poi fatica a ripescarle, perché ignoriamo il path (il percorso) che ci condurrebbe a loro. Ci sono, dunque, sul disco o nel cloud, ma è come se non ci fossero.

Da qui due considerazioni. La prima è la più semplice: impariamo a tenere ordinato il nostro cervello e saremo tutti più ricchi di pensieri, sentimenti, risorse per affrontare la vita. Lo diceva anche Pascal.

La seconda, se quanto appena detto è vero, è che noi tutti - in fondo - viviamo pensando di essere altri da quello che siamo. Viviamo cioè pensando di essere quel noi ridotto che riusciamo a mettere insieme coi frammenti di memorie che siamo in grado di ripescare volta per volta.

“Raccomando ai miei posteri” scrisse Eugenio Montale al termine del Diario del ’71 e del ’72, “di fare  / un bel falò di tutto che riguardi / la mia vita, i miei fatti, i miei non-fatti.” Dopo di che una identificazione “al negativo”: “Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere”. Dunque: ho vissuto immaginando di essere un grande poeta, ora vorrei dire di non esserlo stato sperando che i posteri mi smentiscano. E infine la resa: “Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose. Troppo spesso invece piove /sul bagnato”.

Ci è andato vicino, il poeta: in genere il “McConaughey” nel quale ci identifichiamo noi “sani” è quel cinque per cento di noi stessi che ci permettiamo di essere. Beato Roy che ha avuto per qualche tempo il dono di immaginarsi di più.

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