Ospitati soprattutto dalla Caritas

Quanti sono e da dove vengono i rifugiati a Bergamo

Quanti sono e da dove vengono i rifugiati a Bergamo
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L’accoglienza dei migranti in cerca di asilo alla Ca’ Matta di Ponteranica, venticinque persone in tutto, ha scatenato una serie di polemiche, prima del loro trasferimento alla casa di Botta di Sedrina. Ma i profughi presenti a Bergamo, accolti e ospitati soprattutto dalla Caritas e da altre cooperative, sono 350. Ne arrivano ogni giorno: i loro paesi d’origine sono Mali, Nigeria, Zambia, Senegal, Eritrea, Siria, qualche volta Palestina. Gli ultimi tra martedì e mercoledì: 5 sudanesi, 17 pachistani.

Approdano tutti in Italia per lo più a Lampedusa sui tristemente noti “barconi della morte”. Fuggono dalle guerre, dalle violenze, dalle persecuzioni, dalle carestie. Più della metà di loro versa in una situazione di esilio protratto ormai da molti anni, anche più di cinque: non vogliono tornare a casa o a causa dei continui conflitti, o perché non riescono a superare il trauma delle persecuzioni e delle torture subite. In Italia, secondo i dati forniti dal Viminale, i migranti trattenuti nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) da inizio anno sono 2124, di cui 1036 sono stati rimpatriati. Per i tempi medi di permanenza nelle strutture si va da 24 giorni di Caltanisetta ai 55 di Bari, passando per i 32 di Roma e Torino e i 50 di Trapani.

BergamoPost ha parlato della situazione a Bergamo e provincia con don Claudio Visconti, direttore della Caritas diocesana, che gestisce 291 immigrati richiedenti asilo nelle strutture di Urgnano, Casazza, San Paolo D’Argon, Valbondione, Bergamo, e - da qualche giorno - Botta di Sedrina.

Fotografia degli immigrati richiedenti asilo a Bergamo. I due volti dell’immigrazione a Bergamo oggi sono rappresentati da un gruppo di persone che hanno già diritto d’asilo e arrivano da zone di guerra come la Siria, la Palestina, l’Eritrea. Sono prevalentemente famiglie con bambini che hanno l’Italia solo come primo punto di arrivo: nessuno di loro è intenzionato a fermarsi. Sono persone che hanno già contatti in Europa e per loro le coste italiane sono solo un approdo di passaggio per raggiungere la Svezia, la Norvegia, la Germania, Paesi dove le procedure per la concessione dello status di rifugiato hanno un iter più snello del nostro. A queste persone non interessa essere riconosciute e inserite nei progetti di assistenza perché se ne vanno subito.

Poi c’è il secondo gruppo di migranti, che è il più consistente ed è costituito da uomini di 18-20 anni dell’Africa SubSahariana. Anch’essi chiedono asilo, ma probabilmente non lo avranno mai. Sono persone molto povere, senza alcuna professionalità, non parlano altra lingua se non il loro dialetto e non hanno agganci in Europa. «Sono loro il grosso nodo da sciogliere in termini di progettualità» afferma don Claudio, perché non si può sapere quale futuro potranno avere queste persone.

Quanto tempo si fermano e che futuro hanno le persone che vengono accolte. Un’ondata migratoria, quella degli ultimi mesi, che ha caratteristiche diverse rispetto a quella del 2011, quando arrivarono moltissimi profughi dalla Libia. Tre anni fa ad arrivare erano persone più adulte di oggi, con professionalità esperte, spesso laureate, in grado di parlare più lingue. All’epoca, il rapporto di chi se ne andava e chi rimaneva era di 80 a 20 e il tempo medio di permanenza era di uno o due mesi. Oggi la situazione è molto diversa e non si può sapere quanto tempo si fermeranno i profughi che la Caritas accoglie. Sono molti, forse troppi, quelli che dopo mesi non hanno ancora ottenuto una risposta sulla richiesta di asilo. La giovane età e la grande povertà di questi migranti, inoltre, fa temere che il rapporto del 2011 si inverta, anche se non ce n’è la certezza.

Quanto costano ai bergamaschi? Ogni progetto di accoglienza si costruisce dopo aver aderito al bando della Prefettura. Lo Stato finanzia una diaria di 30 o 35 euro al giorno, cifra nella quale bisogna far stare ogni voce di costo: l’accoglienza, il vitto, l’alloggio, i vestiti, lo stipendio degli educatori, le medicine e le visite mediche, i corsi di italiano, i viaggi a Milano presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Non è facile far quadrare i conti e per questo ai bandi della prefettura per l’accoglienza aderiscono in pochi.

Quella della Caritas è un’accoglienza a costo zero per i bergamaschi. È vero che i 30 euro della diaria giornaliera arrivano dai soldi delle tasse pagate dai cittadini allo Stato, ma per i comuni non c’è alcun costo. Chiunque può accogliere queste persone, basta aderire ai bandi della prefettura. Generalmente, però, non essendo convenienti, vi aderisce solo la Caritas o qualche cooperativa.

Opportunità per il territorio. Ogni storia, come ogni persona che vi sta dietro, è unica e diversa. Ma l’assistenza ai migranti può anche creare una sorta di indotto per i comuni dove sorgono le case di accoglienza. In termini minimi, certo. La Caritas ultimamente ha cercato di valorizzare il territorio. Per svolgere i progetti di assistenza assume, accanto al personale specializzato già in organico, educatori che risiedono sul territorio. E poi ci sono il cibo, i vestiti, tutto quanto serve per vivere. «La spesa, finché riusciamo a sostenere i costi» spiega don Claudio «la facciamo presso i commercianti locali. Nelle catene della grande distribuzione avremmo uno sconto maggiore, ma crediamo sia importante valorizzare il luogo di accoglienza sotto tutti gli aspetti». Un gesto importante quello di aiutare, in tempo di crisi, anche i lavoratori e le imprese locali. Così, chiedere 20 kg di pane ogni giorno per un tot di mesi aiuta anche (almeno un po’) l’economia dal territorio.

Integrazione possibile? Il concetto di accoglienza della Caritas è ben diverso dai Cie, da cui non si può uscire. La Caritas accoglie e assiste le persone in totale libertà, per cui chiunque se ne può andare quando vuole. Nella fase di emergenza, si tende a non creare momenti di incontro con le comunità locali per poter meglio capire chi sono i migranti e da quale contesto arrivano. «Generalmente» dice don Claudio «la prefettura ci comunica in tempi strettissimi quante sono le persone che di volta in volta ci vengono date in carico e non possiamo organizzare incontri con le comunità per impostare dei progetti di integrazione perché ogni storia è diversa e unica. Il rapporto con la gente si costruisce dopo che la fase di emergenza è passata. La prima cosa che facciamo quando sappiamo chi dobbiamo assistere è chiamare il parroco per informarlo, mentre la prefettura chiama il sindaco del comune in cui ha sede la casa di accoglienza».

Momenti di condivisione, una volta passata l’emergenza, sono stati organizzati, ad esempio, a San Paolo D’Argon: hanno avuto successo e buona partecipazione. In altri casi, è bene sensibilizzare la gente sui contesti di provenienza e informare sulle crisi in atto nei Paesi da cui i richiedenti asilo arrivano.

A Botta di Sedrina, nonostante le polemiche, i ragazzi del paese hanno già giocato a calcio con i giovani profughi, a cui si premurano anche di trovare le scarpe. BergamoNews pubblica la foto di un lettore, che scrive: «Vi propongo questa foto che viene direttamente dal campo sportivo di Botta di Sedrina, ci sono dei giovani che stanno giocando tranquillamente con i profughi ospitati alla casa di ritiro; spero che possiate condividerla per poter diffondere l'idea che non tutto il paese di Sedrina stia contestando l'arrivo di queste povere persone e anzi i giovani stanno partecipando attivamente alla loro integrazione e al loro aiuto raccogliendo scarpe per farli giocare a calcio, perchè giocavano scalzi sul sintetico. Vi prego di accogliere il mio appello e vi ringrazio per l'attenzione».

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