Dal Guardian del 27 giugno 2014

Quattro storie di avvocati che hanno difeso l'indifendibile

Quattro storie di avvocati che hanno difeso l'indifendibile
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Rory Carroll e Simon Hattenstone parlano agli avvocati che hanno trattato alcuni dei casi più neri della cronaca americana e britannica. Proponiamo la traduzione del loro articolo apparso sul Guardian il 27 giugno 2014.

 

JOHN HENRY BROWNE
John Henry Browne, 67, è stato un praticante legale per 43 anni. Residente a Seattle, Washington, ha difeso assassini seriali, incluso il serial killer Ted Bundy, che ha seminato terrore negli Stati Uniti negli anni Settanta, e Robert Bales, un sergente dell’esercito che ha massacrato 16 civili afghani nel 2011.

 

Ted Bundy, un uomo nato cattivo? Mi sono sempre sentito attratto dai più deboli. Spesso i governi sbagliano. Ho rappresentato numerose persone innocenti. È un po’ il mio percorso. Quello che dovrei fare.
La recitazione è una parte del lavoro. Mi viene naturale. Ho fatto teatro al liceo. Le persone dicono che sono un personaggio shakespeariano, fiammeggiante. Ho capito cosa significa questo: significa essere un avvocato che ha una personalità. Puoi montarti la testa facilmente in questo business. Combatto con il mio ego.
Sono cresciuto contro la pena di morte, ma dopo che una mia amica è morta brutalmente nel 1969 ho pensato di trovare l’uomo che ha ucciso Debbie e prendermi cura di lui. Suona un po’ bizzarro, ma dopo un po’ lei mi è apparsa in sogno. Non aveva mai creduto nella pena di morte, così sono tornato a combatterla, in parte per farle un omaggio.
Di solito ho un certo rapporto emotivo con i miei clienti, ma Ted Bundy è stato un perfetto esempio di un uomo nato cattivo. Non ho compassione per lui. Ma volevo salvarlo dalla pena di morte. A volte era intelligente e generoso. A sederti e parlare con lui potevi pensare che era un tipo normale. Recitava molto bene. Completamente manipolativo.
Ted mi ha raccontato che una volta alle scuole medie avrebbe messo dei topi bianchi in un piccolo recinto. Sarebbe stato lì seduto a guardarli per scegliere quali avrebbe salvato e quali ucciso. Era lo stesso con le donne. Il suo autocontrollo era la chiave. Ma Ted mi disse qualcosa che mostrò che aveva un 2% di non sociopatico. Mi disse: «John, io voglio essere una persona buona, semplicemente non lo sono».
Mi disse che la ragione per cui ero stato il suo avvocato per così tanto tempo – licenziava sempre gli avvocati – era perché eravamo molto simili. Mi avrebbe imitato, e avrebbe indossato i miei stessi vestiti. Questo mi mise i brividi. Rifiutando il patteggiamento ho trovato il modo di salvargli la vita.
Al tempo in cui stavo difendendo Ted, stavo difendendo anche una donna abusata. Questo non mi confondeva, ma comunque confondeva un sacco di gente.

Ted Bundy

Bobby Bales, un uomo nato buono? Bobby Bales è nato buono. È stato un presidente del corpo studentesco, capitano della squadra di football, e si è preso cura di un ragazzo gravemente disabile. Bobby è stato una vittima delle nostre guerre. Aveva fatto diverse guerre, aveva un disturbo post traumatico da stress, ed è finito a lavorare con forze speciali maschiliste che gli hanno dato alcol e droga. Bobby fece qualcosa di cattivo, ma non era cattivo, e noi – il nostro governo e il nostro esercito – dovevamo prenderci responsabilità di lui. Ma non l’hanno fatto. Così l’ho fatto io.
E poi sono andato in Afghanistan e ho visto quei piccoli bambini – vittime e testimoni (del massacro) – che avrei voluto adottare. Ad una ho dato il mio biglietto. Era in stampelle, semplicemente adorabile, e dissi: «Se vuoi andare al college negli Stati Uniti, fammi sapere e farò in modo che avvenga».

È difficile scrollarsi questo lavoro di dosso. Inizi a guardare il mondo attraverso una finestra sporca. Sono stato sposato un po’ di volte e il fatto è stato parzialmente conseguenza del mio lavoro. Vivere con me è molto difficile. Faccio molto yoga e meditazione. Sono molto bravo a convincermi di avere organizzato (letteralmente compartimentato) tutta questa roba.
Quello che mi distingue dagli altri avvocati – e so che suona molto sciocco e new-age – è la credenza che siamo tutti connessi tra di noi. Questa mi ha salvato dal disprezzo per quello che stavo facendo. Sono sempre insicuro, penso sempre di non aver fatto niente, che qualcuno conosce il lavoro molto meglio di me. Così mi sovraccarico di cose, finendo per far impazzire la mia famiglia e le mie cose.
Non posso ancora guardare all’immagine di un’autopsia senza soffrire. C’è il massimo livello di male che puoi vedere senza bruciarti. Però lo assorbi, e questo non è un bene.
Mio padre una volta disse: «Per far sì che la nostra società sia libera e democratica, qualcuno deve saper fare il tuo lavoro, e saperlo fare bene». Poi si è fermato un momento e ha aggiunto: «Mi dispiace veramente solo che quel qualcuno sia tu». Mi sento allo stesso modo.

 

IRVING KANAREK
Irving Kanarek, 94, ha praticato la legge in California dal 1957 al 1989. Ha rappresentato Charles Manson, che è stato condannato nel 1971 per l’organizzazione dell’omicidio dell’attrice Sharon Tate (26enne attrice e moglie di Roman Polanski, incinta di otto mesi, ndr) e di altre sei persone. Ha anche difeso Jimmy Lee Smith, condannato per rapimento e omicidio di un poliziotto di LA nel 1963, un caso immortalato nel libro The Onion Field.

Innocente fino a prova contraria. Ho voluto difendere clienti che sapevo essere colpevoli di crimini orribili. Ma loro dovevano sempre dimostrarne la colpevolezza. Ho avuto casi in cui le persone erano colpevoli come l’inferno, ma gli accusatori non potevano provare il fatto. E se non lo potevano provare, gli imputati non erano colpevoli. In questo caso, la persona cammina libera. Questa è la giustizia americana.

Charlie Manson non era un mostro. Ho ottenuto un’inversione della sentenza di morte di Jimmy Lee, che era stato accusato di aver ucciso un ufficiale di polizia. Questo mi ha reso una vittima di non-oggettività poliziesca.
Non è stata una decisione difficile quella di prendere il caso di Manson. Il mio scopo era quello di combattere le prove legalmente ammesse, il cui ammontare era scarso. La sua colpa era basata su alcune dicerie, inammissibili nella corte, che sostenevano che avrebbe detto a questo ragazzo di fare un certo numero di cose nella residenza dei Tate. Non v’era dubbio che era legalmente innocente. E, ancor più di questo, era realmente innocente. Non c’era evidenza che lo connetteva a quegli omicidi. Giornali, riviste e film hanno reso le persone elettrizzate attorno all’idea di Manson come incarnazione della malvagità umana. Charlie non era un mostro. Quando guardi all’evidenza legalmente ammissibile arrivi a una conclusione molto diversa. Guardandolo da una prospettiva oggettiva, era una persona proporzionata.
Ho pensato molto al caso in termini di legalità. Non mi sono soffermato molto sulla sua tragedia umana. C’è molto mito, per esempio il fatto che il bambino fosse stato preso fuori dal corpo della Tate. Non solo. Le ferite non erano all’addome. Le ferite erano prevalentemente all’altezza dei seni.

Charles Manson and Irving Kanarek

In presenza del male. Non ho speso molto tempo (pensando alla Tate e alle altre vittime) perché erano vittime di dispute in cui Charlie non aveva niente a che fare. Penso che il suo coinvolgimento sia stato tristemente estrapolato.
Quando visitai la casa i corpi erano già stati rimossi. La scena è quella che chiamerei meccanica. Niente di quello che c’era era macabro di per sé. Avevano segnato dove erano con il gesso. Non è stato opprimente come molte persone invece pensano che fosse. Niente di questo è rimasto con me. Gli strumenti del tribunale rendono queste scene meno che umane. Non penso a queste cose emozionalmente. Le vittime sono parte del caso, ma non sono così tangibili. Ho perso il sonno per altri casi, ma non per questo.
La gente mi chiede se non mi sentissi mai in presenza del male, ma non saprei come rispondere a questa domanda. Non ho mai sognato o pensato molto a Charlie.
Provo rammarico per tutti i casi in cui qualcuno è ucciso o ferito. Ma non ho mai difeso nessuno che è stato accusato di atti orribili sui bambini.

 

LAURENCE LEE
Laurence Lee, 61, gestisce il proprio studio a Liverpool ed è specializzato in diritto penale. Nel 1993 ha rappresentato un bambino di dieci anni, Jon Venables, che è stato accusato del rapimento (da un centro commerciale di Bootle) e dell’uccisione di un bambino di due anni, James Bulger. Venables e il suo co-imputato, Robert Thompson (anche lui dieci anni), sono stati giudicati colpevoli, diventando così i più giovani assassini condannati della Gran Bretagna.

Una telefonata del destino. La descrivo come la telefonata del fato. Il telefono stava squillava fuori dalla stanza dei procuratori legali della Corte Magistrale di Liverpool. Suonava sempre, e nessuno rispondeva mai. Quel giorno l’ho preso in mano, e una voce disse: «Sto cercando Laurence Lee, l’ha per caso visto?». Ho quasi lasciato cadere il telefono in stato di shock. Le chance che quello che stavano cercando ero proprio io erano remote.
Sono stato coinvolto in molti casi di droga. Non molti omicidi, solo stressanti casi di alto profilo criminale. Non ti puoi preparare per quelli.
Sono andato a Lower Lane e ho incontrato il ragazzo. Sembrava più un bambino di otto anni che di dieci, e alla prima intervista fu così convincente che credetti che non fosse stato minimamente vicino al centro commerciale Strand. Disse che era a Country Road vicino al campo dell’Everton con Robert Thompson.
Dopo la pausa, all’inizio della seconda intervista l’ufficiale disse: «Abbiamo parlato con Robert e ha detto che tu eri allo Strand». «Non eravamo allo Strand, eravamo a Country Road, te l’ho detto» disse lui. Silenzio. «Va bene, eravamo allo Strand, ma non abbiamo mai rapito un bambino, mamma».
Quello è stato il momento in cui ho capito. Lui gemette e urlava e scese dalla sedia per abbracciare sua madre e un poliziotto. Sapevo che a quel punto eravamo in bel problema. E mi sconvolge anche adesso.

Un cappottino color senape. Quella sera, ho guardato Crimewatch e ho visto qualche ragazzo che sembrava Jon Venables con indosso un cappotto color senape. Non riuscivo a dormire. Quella mattina, prima di andare al lavoro, ho guardato fuori dalla finestra e ho pensato che seduto sul muretto di là della strada c’era l’effige di un bambino. Mi sono messo gli occhiali, ed era qualcosa di innocente. Non vedevo l’ora di tornare alla stazione di polizia. Ho fatto irruzione nella stanza e ho chiesto a Venables: «Di che colore è il tuo cappotto?» E lui disse: «Senape».
Gradualmente, rivelò di più sullo Strand. Ha detto che erano stati ai giochi per bambini, e che non erano colpevoli di nessun reato di cui li avevano accusati. A pranzo sono uscito per dargli una pausa, e quando alle 14.00 sono tornato mi è stato detto che aveva ammesso di aver ucciso James: «Abbiamo ucciso noi James. Per favore informi sua mamma che mi dispiace».
Questo era emerso grazie a sua mamma. Lei gli disse: «Jon, io ti amerò per sempre, ma devi dire la verità». Questo era il livello di responsabilità di quella donna. Lui ha sempre sostenuto che Robert Thompson fosse più colpevole di lui. Abbiamo sostenuto che Thompson fosse il primo motore, e che avrebbe dovuto essere accusato di omicidio colposo invece che di omicidio. Ma l’accusa non avrebbe accettato un motivo d’omicidio colposo, e così ci siamo dichiarati non colpevoli.

Jon Venables

Una vaschetta di pesci tropicali. L’atmosfera in città era estremamente arrabbiata, vessatoria e vendicativa. Dopo la prima comparsa del bambino nella corte, sono andato alla finestra e ho visto una folla urlante che scagliava mattoni contro il furgone della polizia che presumibilmente conteneva i ragazzi.
Ho pensato, tra me e me, come diavolo può un bambino essere così crudele? Non gli ho mai chiesto come abbia potuto farlo. Non l’ho mai fatto con nessun cliente.
Albert Kirby, il detective del caso, pensava intendessero ucciderlo fin dall’inizio; che loro erano costitutivamente malvagi. Non sono d’accordo. Hanno portato James a fare una lunga camminata, e hanno avuto molte opportunità per ucciderlo. Hanno trascorso secoli in un negozio di pesci tropicali, picchiettando sulle vasche, chiedendo se i pesci erano reali. La mia teoria è che intendevano perdersi con lui senza sapere cosa fare di lui in un secondo momento.

Una foglia incastrata nel piede. Ero davvero preoccupato per il caso e per le ripercussioni nell’accettarlo. L’unica chiamata che abbiamo avuto fu quella di una donna che aveva una pratica aperta su una serra di sua proprietà. Disse: «Mr. Lee sta trattando la mia serra. Non voglio che continui con la serra nell’eventualità in cui accetti questo caso». Qualche giorno dopo, ad un benzinaio, un autista massiccio, alto almeno 2.13mt, disse: «Hey tu, sei implicato in quel caso Bulger?» Dissi di sì. Rispose: «Beh, ti ho visto in televisione ieri sera e ho pensato che eri fottutamente grande. Stai facendo un buon lavoro». Ero molto contento dopo questo. Pensai, se posso ottenere la fede nel pubblico di Liverpool, non ho nessun problema.
Prendere il caso fu un mix di principio e pragmatismo. Un avvocato penale che rifiuta un caso di omicidio, non importa quanto macabro, non dovrebbe praticare la legge. È semplice. E se hai ambizione, è certo che lo prenderai. Ho avuto incubi – un sogno ricorrente sul cader fuori da un treno fantasma ad una fiera ed essere travolto. Il caso finì in Novembre e non smisi di avere degli incubi finché non andai in vacanza a Gennaio. Avevo anche terribili flashback. Il giorno precedente alla prima apparizione in corte, ho dovuto guardare un video sul recupero del corpo. Ho sollevato i miei occhiali per non vedere. Nello stesso giorno, sono dovuto andare alla stazione di polizia per leggere l’autopsia. Ciò che mi prese di più fu vedere una foglia incastrata nel suo piede. Mi ha fatto piangere. Terribile.
[…] Non è uno stigma essere riconosciuto come l’avvocato Bulger, ma avuto comunque un forte impatto su di me. Per lungo tempo dopo il caso non sono andato al lavoro. Ho avuto quella che chiamo una sindrome post-Bulger. È vitale per me parlarne; è una liberazione. Non sto dicendo che sarei finito in un istituto d’insanità mentale, ma è un bene venirne fuori.

 

WILLIAM KELLEY
William Kelley, 65, si è ritirato due anni fa dopo aver praticato legge ad Orange County, in California, per 33 anni. Ha difeso Charles Ng, che è stato condannato per l’omicidio di 11 persone. Ng e il suo complice, Leonard Lake, hanno rapito e torturato le loro vittime in una baracca remota sulle colline della Sierra Nevada durante la metà degli anni Ottanta.

Scegliendo di essere un mercenario. Ero bravo solo in una cosa, e questa era provare i casi. Se ti piace essere in una corte, e a me piaceva, è davvero una scossa, una corsa. Specialmente se hai tra le mani un caso interessante.
Non cadevo in preda ad investimento emotivo con i miei clienti. Ho fatto quest’errore una volta e mi ha spazzato via. Penso di essere abbastanza mercenario. Basta portarmeli e io li difenderò. Ti fa essere un avvocato migliore.

Combattendo dall’altro lato. Il caso di Charles Ng è stato la cima della montagna per me. Ero lusingato dalla richiesta. La mia unica esitazione non era in relazione al fatto che lui fosse un mostro, ma all’ammontare del lavoro. E avevo ragione. Sei anni. Ero inorridito dal mio cliente? Negli omicidi, devi semplicemente non avere questa impostazione mentale. Devi pensare che hai intenzione di fare le cose più sorprendenti per difendere al meglio la persona che hai davanti. Devi voler prevalere. Stai combattendo l’altro lato. Se ti ritiri vuol dire che non sei all’altezza della giuria.
Era necessario cercar di capire Charles Ng per difenderlo. La nostra relazione non era realmente cordiale, perché lui era costantemente critico. Gli dissi che ero io l’avvocato con esperienza, e che avremmo fatto le cose alla mia maniera.

Guardando l’orrore. I videotape erano duri. In uno, Kathleen Allen è in catene. Le stavano parlando, dicendole di rispettare i loro ordini, che la terranno catturata. Lei è terrorizzata. È dura vedere queste cose. La prima volta che l’ho visto era come, wow. Ma stavo anche pensando, ragazzo, questo è un cattivo pezzo d’evidenza. Brenda O’Connor è su un altro videotape. Vuole sapere dov’è suo figlio. Sta resistendo, sostenendo e aggravando la sua posizione. Loro rispondono: «Abbiamo dato via il tuo bambino. Sta bene». Non era vero. Il bambino non è mai stato trovato. Misero una pistola sul tavolo. Stavano fondamentalmente dicendo, sei nostra adesso. Rimani in stordito silenzio quando lo vedi. Non ricordo se ero riuscito a dormire quella notte, ma se devo azzardare dico probabilmente di no. L’ho riguardato una dozzina di volte dopo quella. L’impatto non diminuisce, perché  stai cercando qualcosa.

Restando nell’arena. L’aula era gremita, solo posti in piedi, tutte le volte. Alcuni dei parenti delle vittime mi odiavano. Non puoi avere successo nei casi di omicidio se rimani coinvolto emotivamente con le vittime. Devi essere davvero, davvero oggettivo. E del tipo freddo. Puoi simpatizzare a qualche livello, pensarci il primo giorno mentre li guardi piangere nella galleria. Ma quando il martelletto scende e il gioco comincia, questo è tutto, loro non sono parte di quello che stai facendo.
Devi essere capace di mettere in luce i fatti quando hai bisogno di una reazione emozionale dalla giuria, sapere come premere quel bottone. La corte è un teatro di persuasione. Tu fai quello che devi fare – entro i limiti dell’etica.
Quando il caso finì ero esausto. Mi presi una pausa da solo e andai in Irlanda. Terapia Guinness. Guinness e golf.
Sono veramente felice di aver difeso Charles Ng, ma non lo rifarei mai più. Ti chiede troppo al di fuori di te stesso. Ho avuto un rapporto che è finito, e questo caso ha avuto molto a che fare con la rottura. E non ti lascia mai.
Ho qualche origami di Charles sulla mensola del camino. Penso sia bizzarro. Era artistico, un ragazzo molto creativo. Mi piace l’arte. Averli qui mi ricorda dell’intera esperienza.

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