È tempo di stranezze post Brexit I sostenitori del Leave ora si ritirano

L'Europa rimane in attesa di capire quali saranno le prossime mosse della Gran Bretagna dopo il referendum che ha confermato la Brexit, con la vittoria del sì per l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea, e intanto all'interno del Paese domina l'incertezza, tra dimissioni inattese e alleanze spezzate.
Il suicidio politico di Cameron. Il successo del fronte del Leave è stato accolto in maniera diametralmente opposta dai due schieramenti, con feste e brindisi da una parte ma anche con lacrime e manifestazioni di protesta da parte di chi aveva sostenuto il Remain. Il giorno successivo all'esito del referendum sono arrivate come previsto le dimissioni del premier in carica David Cameron, che è stato il primo promotore del referendum, utilizzato forse più come arma politica che come vero e proprio strumento di democrazia. L'alleanza con i nazionalisti dell'Ukip ha costretto il leader conservatore a concedere questa iniziativa popolare tanto temuta dall'Ue, ma probabilmente nemmeno lui aveva previsto un esito simile e contava di uscire rafforzato da una vittoria del Remain. Il discorso commosso di Cameron è stato una sorta di ammissione di colpa, l'ex premier ha compiuto un vero e proprio suicidio politico i cui effetti si ripercuoteranno però su tutti i cittadini britannici e dell'Unione Europea.
Boris Johnson si ritira. I partiti tradizionali inglesi, intanto, si erano spaccati durante la campagna elettorale, tra cambi repentini di fronte e sfide fratricide. Il caso più noto ha riguardato l'ex sindaco di Londra Boris Johnson, un tempo ritenuto a favore della permanenza nell'Unione, che ha nei mesi scorsi condotto una battaglia durissima per promuovere l'uscita dalle istituzioni europee. Una parte dei cittadini londinesi non ha apprezzato questo fervore anti-europeista, tanto che, la mattina dopo l'ufficializzazione del voto per il Leave, una folta schiera di elettori si è radunata per contestare Johnson all'uscita della propria abitazione.
Secondo l'analisi politica di molti esperti, la scelta di Johnson è stata fatta con la precisa intenzione di proporsi come valida alternativa per la successione dell'ormai ex premier. Sembrava proprio lui quindi a dover raccogliere l'eredità di Cameron. Invece è di pochi giorni fa la notizia della sua rinuncia alla candidatura come leader laburista, con l'approvazione di uno dei suoi principali sostenitori, il ministro della Giustizia Michael Gove. Secondo Gove, ritenuto uno dei ministri più influenti del governo conservatore, Johnson non sarebbe adatto a governare la Gran Bretagna in un momento così politicamente difficile.
Farage, parlamentare antieuropeo a Bruxelles. La situazione più singolare e discussa è quella del leader del partito nazionalista dell'Uikp, Nigel Farage, da sempre considerato il più grande oppositore dell'Unione Europea, non soltanto all'interno dei confini britannici ma anche e soprattutto all'interno del Parlamento Europeo. La sua elezione nel fronte degli euroscettici ha dato il via due anni fa ad un movimento che non si è più nascosto nel sottobosco della politica, ma ha assunto un peso specifico rilevante in termini numerici, tanto da creare una vera e propria alleanza all'interno del Parlamento. Tra i suoi primi alleati c'è stato il leader dei 5 stelle Beppe Grillo, che, poche ore dopo l'elezione dei propri parlamentari, è volato in Gran Bretagna per stringere un accordo che è tutt'ora valido, a giudicare dalle ultime votazioni in aula.
Il clima a Bruxelles dopo la vittoria del fronte Brexit era rovente, l'intervento del leader euroscettico è stato fortemente contestato da quasi tutte le ali dell'emiciclo, ma nonostante questo Farage ha parlato mantenendo il suo tono di sfida nei confronti dei colleghi e festeggiando il raggiungimento dei suoi obiettivi. Il momento di maggiore tensione e contestazione si è verificato però quando Farage ha dichiarato senza remore di non voler rinunciare al proprio posto all'interno del Parlamento Europeo, presentando così diversi dubbi di natura politica ed etica. Il primo dubbio riguarda l'effettivo contrasto tra una figura che è appena stata identificata come la prima responsabile dell'uscita dall'Ue della Gran Bretagna e che quindi non dovrebbe avere interessi nell'Unione e, anzi, quasi ne disconosce l'autorità. Il secondo dubbio, forse più clamoroso, riguarda le conseguenze economiche di questa scelta: Farage continuerà infatti a ricevere un lauto stipendio che sarà pagato da tutti i cittadini dell'Unione Europea, gli stessi dai quali dichiara di volersi allontanare il più presto possibile.
Farage, le dimissioni dall'Uikp. Il colpo di scena più clamoroso però si è verificato all'inizio di questa settimana, quando Nigel Farage ha deciso di dimettersi dalla leadership del partito nazionalista Uikp (Partito per l'Indipendenza del Regno Unito), dichiarando di «volere indietro la sua vita». Il contrasto con la carica mantenuta in Europa è piuttosto evidente, ma le perplessità maggiori derivano dal fatto che di rado è capitato di vedere un politico di spicco vincere una grande battaglia e poi ritirarsi proprio al momento di iniziare il vero lavoro. Questo dovrebbe infatti essere il momento in cui i sostenitori della Brexit, dopo mesi di feroci attacchi all'Ue e di un'opposizione senza tregua, dovrebbero organizzarsi per costruire la nuova Gran Bretagna, partendo proprio dalle modalità di uscita dall'Europa, che tutti desiderano sia rapida e indolore.
E ora? Le promesse elettorali più forti, che riguardavano l'immigrazione e l'utilizzo dei fondi prima versati nelle casse dell'Unione, sono state ampiamente smentite soltanto poche ore dopo il voto e ora si fatica a trovare una figura di riferimento che possa condurre il Paese in questo momento di importanza cruciale. I cittadini britannici sono ora in attesa di un nuovo primo ministro in grado di portare avanti il processo di uscita, proponendo un'alternativa valida al vecchio sistema che implicava l'inclusione all'interno dell'UE e qualcuno inizia a chiedersi se ci fosse realmente un piano alternativo o se dietro ai proclami elettorali ci fosse soprattutto la volontà di vincere una sfida politica a prescindere del bene comune.