Sulle strade bergamasche sono rimaste in poche, la prostituzione adesso è online
L'opera della Fondazione Gedama che combatte la tratta. Il fenomeno purtroppo c’è ancora, anche se è molto cambiato
di Wainer Preda
«Non si chiama prostituzione, si chiama schiavitù». Non usa giri di parole don Giampaolo Carrara. Lui e la sua fondazione Gedama, onlus nata nel 2006, si prende cura della ragazze finite nel terribile giro dello sfruttamento sessuale. Con i suoi volontari cerca di aiutarle a uscire da quella condizione degradante. «Sono ragazze private della libertà, calpestate nelle dignità e rese schiave per sfruttamento», dice chiaro al microfono. Ad ascoltare le sue parole, nella chiesa di San Giuseppe, al Villaggio degli Sposi, sono in tanti. Eppure non è una messa, ma un incontro dedicato a un tema scottante, spesso sottaciuto in Bergamasca.
Lui no, non si nasconde don Giampaolo. Va sulla strada insieme ai suoi collaboratori, per portare conforto, almeno una parola gentile a quelle sventurate. A professare quello che ha detto il Santo Padre: «La Chiesa deve uscire verso le periferie esistenziali». Quelle che facciamo finta di non vedere anche se le abbiamo sotto il naso, di giorno e di notte.
Sulla strada da 900 a 142
La prostituzione a Bergamo e provincia c’è ancora, anche se è molto cambiata dalla fine degli Anni Ottanta. È un popolo che si sposta, che si espone e si nasconde. Che arriva e che parte. Stuoli di ragazze obbligate alla sfacciataggine e a molto peggio, sotto gli occhi di tutti. Negli Ottanta sono arrivate le albanesi e le nigeriane. Poi nel decennio successivo le ragazze dell’Est. Per circa vent'anni il fenomeno è proseguito in strada e negli ambienti chiusi: case e appartamenti, hotel e motel, persino bed and breakfast e a domicilio. Con l’arrivo della pandemia, il mercimonio stradale è sparito. E anche quello indoor è crollato. Ma sono apparse nuove forme attraverso la rete e i social network. «Oggi il mondo della tratta e della prostituzione si sta ridisegnando - spiega don Carrara - e occorre osservarlo attentamente per capire come dare aiuto a queste ragazze, rese oggetti, private della dignità».
Sulle strade bergamasche, l’associazione ne ha contate 142. Niente rispetto alle oltre 900 che c’erano nel 2018. In città sono alla stazione, in Malpensata, in via Fantoni, in via Moroni, in San Tomaso, al Villaggio degli Sposi. Nell’hinterland, a Mozzo, Valbrembo, Paladina e Villa d’Almé. E poi a Curnasco, Seriate, Albano, San Paolo d’Argon, Gorlago, Chiuduno, Montello e Costa Mezzate. E poi ad ovest: da Ponte San Pietro a quasi tutti i paesi dell’Isola. Ma anche a sud e nella Bassa: Pontirolo, Ciserano, Verdellino, Lurano, Spirano, Urgnano, Cologno, Ghisalba, Calcinate, Mornico e Palosco. Prostituzione femminile, maschile e transessuale. Escort e giogolo. E persino minorenni. Non ci facciamo mancare niente. Guadagnano dai 300 ai 1500 euro a sera. Forse anche di più. Sembrano grosse cifre. Ma vanno tutte per pagare il debito agli sfruttatori: 50-100 mila euro, per i documenti e la libertà.
Storia di Jessica, 17 anni
Sono soprattutto nigeriane e romene. La Fondazione le conosce personalmente, cerca di aiutarle. I suoi sono dati veri, non statistiche. Visti e vissuti. Perché dietro ogni numero c’è una persona in carne e ossa. E sentire raccontare la storia dalla sua viva voce, ha tutt'altro significato. Come per Jessica, 17 anni. Nata in Nigeria, orfana, come ce ne sono tante. Con otto fratelli di sfamare. Non scolarizzata. Irretita dalla promessa di un lavoro in Europa. «Lavorerai per restituirci i soldi», le hanno detto. Poi le hanno fatto fare un rito voodoo. Ha bevuto sangue di gallina appena ammazzata, mescolato col gin. E la maman l’ha legata a sé con la superstizione, grazie a uno sciamano compiacente, lautamente pagato perché mica si vive di solo spirito.
La maman era collegata con un’organizzazione criminale. La ragazza è stata inviata in Libia, dopo una lunghissima e drammatica attraversata del deserto, dove ha visto morire alcune delle sventurate come lei. Nei campi di detenzione libici ha scoperto qual era il lavoro che le avevano promesso. È finita nelle mani di aguzzini senza scrupoli, subendo soprusi di ogni genere. Ma ancora non ci credeva. «Sono io, colpa mia, dev’essere un caso sfortunato», ha cercato di convincersi. Invece no. L’hanno imbarcata su un gommone e spedita in Italia, come fosse merce qualunque. Di quel viaggio, lei ricorda i raggi della luna. Sul mare. Illuminavano le perline nei capelli di un’altra ragazza che le stava accanto. E quel bigliettino che le hanno dato. Sopra c’era un numero di telefono. «Chiamalo quando sarai arrivata in Italia», le hanno detto. «E non credere alla polizia e agli assistenti italiani», si sono raccomandati.