Martedì le elezioni di Mid Term

E se Trump ancora una volta prendesse tutti in contropiede?

E se Trump ancora una volta prendesse tutti in contropiede?
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E se Donald Trump prendesse ancora una volta in contropiede tutti? È la domanda che assilla osservatori come rivali del presidente americano alla vigilia delle elezioni di Mid Term. Domani, 6 novembre, infatti si tiene un appuntamento classico della politica degli Stati Uniti. Con le Midterm si eleggono i membri di una parte del Congresso, oltre che le assemblee elettive e i governatori di alcuni singoli Stati. In particolare vengono eletti i 435 membri della Camera dei Rappresentanti, con la durata del mandato di ogni deputato che è di due anni. Le ultime elezioni dei membri della Camera sono quindi coincise con le elezioni presidenziali del 4 novembre 2016, quando Trump venne eletto a sorpresa alla Casa Bianca e i Repubblicani strapparono la maggioranza con 235 deputati. Il Mid Term è quindi vissuto come un importante punto di verifica a metà mandato e in genere si traduce con una sconfitta del presidente in carica, complicando così il percorso degli ultimi due anni presidenziali: infatti dal 1992 in poi tutti gli inquilini della Casa Bianca hanno sempre visto il proprio partito perdere terreno, spesso considerevolmente, nelle elezioni di medio termine. È successo a Clinton, a Bush e a Obama.

 

 

Anche questa volta i sondaggi indicano un esito simile: secondo Real Clear Politics al 26 ottobre i Democratici erano in netto vantaggio dati al 49,5 per cento, mentre i Repubblicani non andrebbero oltre il 41,9 per cento. Ma c’è da dire che i Repubblicani stanno risalendo, se si pensa che gli stessi sondaggi a dicembre davano una forbice di 13 punti di differenza con i democratici. Inoltre c’è da tener presenti i meccanismi elettorali che potrebbero giocare a favore di Trump. Il sistema costituzionale americano prevede che ogni due anni venga rinnovato solo un terzo del Senato (i senatori restano in carica infatti sei anni). Dei seggi in palio al Senato con il voto di domani, 23 sono in mano ai democratici e nove ai repubblicani. Quindi Trump ha meno da perdere rispetto ai suoi rivali che sono chiamati a giocare una partita difensiva. Diversa la situazione per quanto riguarda la Camera, test decisamente più decisivo in ogni senso. Qui vengono rinnovati tutti i 435 seggi, l’elezione avviene su base proporzionale (al Senato ogni stato ha due rappresentanti, indipendentemente dalle dimensioni). Alla Camera quindi si tiene conto della popolazione totale Usa - ma con meccanismi che privilegiano gli Stati meno popolosi, nei quali i repubblicani sono più forti.

 

 

Una delle sfide certamente più significative e indicative è quella che si gioca in Texas, Stato sotto controllo Repubblicano. È qui che i democratici hanno giocato la carta del loro candidato più interessante, Beto O’Rourke, che per il Senato proverà la mission impossible di battere Ted Cruz, già sfidante di Donald Trump alle primarie dei Repubblicani. O’Rourke ha impostato una campagna elettorale che gli analisti hanno seguito con molta attenzione perché introduce elementi nuovi nella visione dei Democratici. O'Rourke non attacca Trump in modo diretto e plateale ma cerca di far passare il messaggio secondo cui l’agenda nazionalista messa in atto della Casa Bianca non corrisponde alla vera identità americana. In sostanza ha lanciato l’idea che la vera forza degli Usa sia quella di essere una società aperta, al commercio come all’immigrazione. E che questa sia la leva che garantisce ricchezza al Paese.

Da parte sua Trump, che avrebbe potuto rispondere mostrando i dati di crescita dell’economia americana, ha preferito ancora una volta battere sui temi sovranisti che lo hanno portato alla vittoria presidenziale, in particolare insistendo sull’immigrazione, lanciando l’idea impossibile di cancellare lo Ius Soli (la legge secondo cui chi nasce negli Usa di qualunque nazionalità sia, è americano; tutte le Corti boccerebbero il passo indietro annunciato da Trump). Vedremo se ancora una volta ha fiutato giusto...

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