Il giuramento a Capitol Hill

Trump, il presidente oscuro

Trump, il presidente oscuro
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Con il giuramento solenne a Capitol Hill, Washington D.C., Donald Trump è diventato ufficialmente il 45esimo Presidente degli Stati Uniti. Come nella più architettata delle sceneggiature, appena iniziato il suo primo discorso da presidente, ha cominciato a piovere forte. Il giorno prima, giovedi 19 gennaio, Trump aveva detto di essere soddisfatto delle previsioni metereologiche. «Almeno tutti si convinceranno che i miei capelli sono veri», aveva fatto sapere alla stampa, prima di vantarsi del fatto di aver messo insieme il team con il più alto quoziente intellettivo della storia. Durante l’inaugurazione c’erano parecchi volti noti a fianco del nuovo presidente, tra cui quello di Obama e Michelle, dell’ex-vicepresidente Joe Biden e la moglie Jill, del vicepresidente Mike Pence e della moglie Karen, di Hillary e Bill Clinton, di George W. Bush e della moglie Laura, di Bernie Sanders, e poi quelli di Melania e dei figli di Donald, tutti vestiti e pettinati in maniera impeccabile. Davanti a loro, una folla di persone che si estendeva a perdita d’occhio si godeva il momento storico armata di impermeabili e moderato entusiasmo.

 

 

Ombra e oscurità. Il giorno 20 gennaio 2017 segna l’ingresso in uno dei periodi più incerti della storia del mondo contemporaneo. Il New Yorker lo ha definito «un giorno oscuro per l’America», e titoli simili sono apparsi su numerose testate internazionali (per esempio, il Guardian ha titolato: «La visione del nuovo Presidente fa calare un’ombra su un giorno di sfarzoso spettacolo»). Ombra e oscurità sono stati temi ricorrenti nei titoli e negli articoli apparsi negli ultimi due mesi sulla stampa liberale. Sono stati temi ricorrenti anche nei discorsi di Trump, che ha vinto le elezioni dipingendo una visione cupa e decadente dell’America contemporanea. Durante il suo primo discorso presidenziale, come sempre con un linguaggio capace di evocare immagini forti nella mente di chi lo ascolta, ha affermato che «questa carneficina americana si ferma qui», e che «il tempo delle parole a vuoto è finito». È stato un discorso durissimo verso il passato. Ha promesso di restituire l’America al popolo, concludendo con lo slogan che ha ereditato da Reagan e usato durante tutta la campagna elettorale: We Will Make America Great Again.

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I suoi sono stati soltanto slogan? Impossibile capire in anticipo che tipo di presidenza sarà. I pochi punti saldi della sua campagna elettorale sono stati la costruzione di un muro al confine con il Messico, la riduzione delle tasse per le aziende, l’allacciamento di rapporti più profondi con la Russia, la lotta a un establishment politico a detta sua incapace di far fronte ai problemi reali e l’idea di reinstaurare una classe media forte e sana tramite l’introduzione di un numero imprecisato di nuovi posti di lavoro. A parole, Trump è andato al cuore di molti problemi, parlando allo stomaco dell’America delle periferie e di coloro che lui chiama i dimenticati. Anche durante il suo primo discorso da presidente ha riaffermato che «le persone dimenticate di questo Paese non saranno più dimenticate», una frase che aveva pronunciato ripetutamente anche durante la campagna elettorale. Sono solo slogan?

È un’ipotesi, ma un’ipotesi non completamente infondata. Durante un comizio del suo Thank You Tour (un tour che ha organizzato dopo le elezioni per ringraziare i suoi elettori) a Charleston, in West Virginia, Trump ha affermato: «Mi avete sentito dire che il sistema è corrotto, ma adesso non lo dico più perché ho vinto. Ok? È vero, adesso non me ne importa nulla. Non me ne importa nulla». Lo ha detto davvero, testuali parole. Durante un altro comizio a Des Moines, Iowa, Trump ha affermato che la frase «drain the swamp», uno dei suoi slogan di punta usati in campagna elettorale (traduzione: risanare la palude, della corruzione s’intende), gli era stata suggerita da un suo stratega, e all’inizio non gli piaceva per niente. Poi si è convinto ad utilizzarla una volta, e ha visto che quando l’ha pronunciata la gente è impazzita. Così è andato avanti a ripeterla all’infinito. Quella di Trump è una tipica strategia tipica di marketing che si chiama AB testing. L’idea di fondo, abbastanza semplice, è quella di testare diversi slogan/prodotti, e legarsi a quelli che hanno la miglior presa sulla gente.

 

 

Il team discutibile. La paura è che dietro ai suoi slogan non ci sia davvero un piano solido pronto a combattere i sistemi di potere che hanno generato la drammatica ineguaglianza economica che affligge l’America di oggi. Anzi, alcune delle nomine di Trump sembrano delle colonne portanti di quel vecchio sistema. La scelta di Rex Tillerson come Segretario di Stato, per esempio, ha fatto molto discutere. Fino all’anno scorso, Tillerson è stato amministratore delegato di ExxonMobil, una delle più grandi corporation mondiali di produzione di petrolio e gas. Anche la scelta di Gary Cohn per guidare il Consiglio Nazionale Economico è stata molto discussa, visto che Cohn è stato a lungo presidente di Goldman Sachs. Per il momento, in generale, ci sono persone molto diverse nel team di Trump: alcuni sono esponenti del modello neoliberalista, pertanto orientati al libero mercato; altri sono più vicini all’idea di “America first” che Trump ha espresso in campagna elettorale, che include la rinegoziazione di numerosi trattati internazionali, la chiusura delle frontiere e l’idea che il lavoro manifatturiero vada riportato negli Stati Uniti.

 

 

Tutti i volti di Donald Trump e la sua strategia. Negli ultimi due anni, dall’inizio della sua rocambolesca campagna elettorale, nessuno ha compreso davvero a fondo il personaggio Trump, un uomo dai tanti volti e dalle tante sfaccettature. Trump è stato efficace perché indefinibile: ha costantemente giocato con i media e l’opinione pubblica, seguendo il mantra di Oscar Wilde secondo cui non importa che di qualcosa se ne parli bene o male. Purché se ne parli. A Novembre, poche settimane dopo aver vinto le elezioni, ha pubblicato un tweet in cui ha affermato che avrebbe vinto anche il voto popolare (che ha perso di circa tre milioni di voti) se milioni di persone non avessero votato illegalmente. Non aveva nessuna base fattuale per poter affermare una cosa del genere, ma è tutto parte del suo gioco. Lo stesso giorno, qualche ora prima, il New York Times aveva pubblicato un’inchiesta sui suoi potenziali conflitti d’interessi, inchiesta che stava ricevendo parecchia attenzione mediatica. Dopo il suo tweet, l'attenzione si è spostata su quell’affermazione, dimenticandosi quasi del tutto di quell’inchiesta. Non è impulsività al comando: è strategia.

 

 

Una nuova era. Donald Trump è un presidente oscuro perché non se ne capiscono l’identità e gli scopi; è stato troppo di tutto – una celebrità televisiva, un miliardario e imprenditore senza scrupoli, un wrestler e un attore, un narcisista autoritario, un solido padre di famiglia, un candidato presidenziale che ha distrutto un partito di più di 150 anni dall’interno, per poi riunificarlo dietro a sé; ha scardinato le regole della politica contemporanea e l’idea che chi investe più soldi vince; ha dimostrato i paradossi del politically correct (che alcuni pensano finisca con lui) e ha costretto il giornalismo a pendere dalle sue labbra per una questione di ascolti, perché in sostanza nessuno fa notizia come lui, nessuno cattura la stessa attenzione che cattura lui. È un uomo che ha cambiato per sempre le regole del gioco, nel bene o nel male. Solo il tempo potrà davvero dirci quanto è stata profonda la ferita che ha inciso. Nel frattempo, è fondamentale non chiudere gli occhi, e continuare a pensare che alcune delle cose che detto e fatto non sono normali, né possono diventarlo nella nostra percezione del mondo. Per tutto il resto, il nostro augurio di una buona presidenza.

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