Il difficile contesto

La Tunisia sceglie gli anti-islamisti (però ancora del vecchio regime)

La Tunisia sceglie gli anti-islamisti (però ancora del vecchio regime)
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Il 26 ottobre si sono svolte le elezioni politiche in Tunisia, tra minacce di disordini, violenze e rischio di brogli. Erano le prime votazioni da quando è entrata in vigore la nuova Costituzione (datata gennaio 2014): i quasi 5 milioni di tunisini chiamati alle urne hanno decretato la vittoria del partito laico Nidaa Tounes (costituito dagli uomini di Ben Ali, cacciato dalla rivoluzione del 2011), che ha sconfitto in modo quasi clamoroso gli islamisti di Ennahda, dati per favoriti e vincitori delle precedenti elezioni con il 37 percento dei voti. L’affluenza alle urne è stata di quasi il 70 percento e i risultati ufficiali delle consultazioni hanno decretato – appunto – la vittoria dei laici, che hanno conquistato 85 seggi su 217 all’Assemblea dei Rappresentanti del popolo. Ennahda ha ottenuto 69 seggi.

Il partito laico Nidaa Tounes, seppur vincitore, non ha però una maggioranza parlamentare che gli permetta di governare da solo. Due le strade possibili: la via di un accordo con gli sconfitti per creare un governo di unità nazionale, oppure il tentativo di alleanza con uno degli altri partiti per ottenere così la maggioranza parlamentare. In ogni caso, il governo non vedrà la luce prima dell’esito delle elezioni Presidenziali, che si terranno a fine novembre (le prime con scrutinio diretto).

Il contesto. Alla vigilia del voto, il Paese era alle prese con una situazione di profonda crisi economica, con alti tassi di disoccupazione e un aumento dell’emigrazione (soprattutto tra i giovani) e con scontri tra polizia e islamisti, che hanno provocato un’ondata di arresti e la morte di almeno sei persone.

In tutto il resto Tunisia dominano la corruzione diffusa, la mancanza di servizi e l’inefficienza dell’amministrazione statale. C’è un divario enorme tra le città e le campagne, dove le condizioni di vita restano precarie e le aspettative di benessere e democrazia suscitate dalla cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini (2010-2011) sono state deluse più che altrove. La repressione nei confronti del dissenso è ancora e da sempre molto forte, unita all’impunità concessa agli uomini del vecchio regime.

Che cos’è Ennahda, che ha perso. La transizione dalla dittatura alla libertà iniziata nel 2011, con la cacciata del Presidente Ben Ali oggi in esilio, aveva portato a eleggere nelle prime elezioni libere un partito di stampo islamista, Ennahda, un tempo fuorilegge. Nessun guadagno in termini di libertà di espressione: in questi anni, sono decine le persone finite in manette per aver manifestato il proprio dissenso, fino addirittura all’assassinio di due esponenti dell’opposizione da parte di militanti islamisti.

Ennahda è stato costretto a lasciare il potere in seguito a una nuova ondata di proteste e dopo una crisi politica che si trascinava da tempo. È seguito un governo tecnico che sembrava aver dato il via a libertà di tipo economico, stringendo accordi con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale e rinnovando le concessioni minerarie per quella che è la vera ricchezza del Paese (i fosfati, di cui la Tunisia possiede le più grandi miniere al mondo).

Le accuse a carico di Ennahda, oltre a quelle di aver frenato la crescita del Paese e di aver affossato l’economia, erano quelle di non aver fatto abbastanza per limitare le minaccia jihadista. Si stima che tra le fila dell’esercito del califfato ci siano almeno 4mila tunisini, la nazione più rappresentata. La stesura e la ratifica della nuova Costituzione, lo scorso gennaio, ha segnato solo una timida apertura verso le libertà, nonostante sia considerata un modello di laicità per tutto il mondo arabo.

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