Intervista

Tutto Giorgio Gori in 330 pagine. Che cosa dice il sindaco nel suo libro, "Riscatto"

Scritto con Francesco Cancellato. Dal Covid alla «classe dirigente peggiore di sempre»: un appello a quelle élite che «avrebbero potuto fare e sono rimaste a guardare»

Tutto Giorgio Gori in 330 pagine. Che cosa dice il sindaco nel suo libro, "Riscatto"
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di Andrea Rossetti

Si parla di coronavirus, ovviamente. Di sofferenza, di notti insonni, di errori. Ma si parla anche di Atalanta, di Pd, di politica, di economia ed educazione. C’è tutto Giorgio Gori in Riscatto. Bergamo e l’Italia, appunti per un futuro possibile, il libro appena pubblicato, edito da Rizzoli e scritto dal sindaco insieme a Francesco Cancellato, vicedirettore di Fanpage. Un libro che, rivela Gori, «non avevo mai pensato di scrivere. È stata la casa editrice a contattarmi e propormelo. Ci ho pensato a lungo, e soltanto l’idea di dargli una forma di lunga intervista (sono 330 pagine, ndr) grazie all’aiuto di un giornalista che stimo mi ha convinto».

Proprio Cancellato la definisce «eretico» nelle prime pagine.

«Sì, ma è la sua chiave di lettura. Io la trovo una definizione un po’ paradossale. Ritengo di essere assolutamente coerente con i valori del primo Pd, non un eretico. Se uno prende il discorso di Veltroni al Lingotto, ci trova l’idea di un partito innovatore, aperto, lontano dagli ideologismi, che cerca di coltivare il consenso di chi crede nel merito, nel talento, nelle pari opportunità».

Quindi lei sarebbe l’unico ortodosso del Pd, piuttosto che un eretico?

(Ride, ndr) «Mi piace di più».

Nel libro dice anche un’innocente bugia.

«Quale?».

«Non mi candido a nulla».

«Non è una bugia, è così».

Allora perché tante pagine su un futuro possibile?

«Perché rifletto, perché mi interessa, perché faccio parte di una comunità politica, perché penso sia giusto lanciare un appello alle élite di cui sinceramente mi sento, per via della vita che ho avuto, di fare parte».

Qual è l’appello?

«Provare a mettere le proprie idee, la propria sensibilità al servizio di un bene collettivo».

Ma chi sono le élite? Il termine ha, solitamente, una sfumatura negativa.

«Non per me. Dal mio punto di vista, le élite sono persone mediamente intelligenti, preparate, che hanno esperienza, che hanno una condizione sociale che gli consente di dedicarsi agli altri».

Però non lo fanno. Nel libro scrive: «Tanti che avrebbero potuto fare, sono rimasti a guardare». Ci fa dei nomi?

«No! (Ride, ndr) Vi faccio il nome di uno che invece non è rimasto a guardare: Carlo Calenda. Si può essere d’accordo o meno con lui, ma è una persona che non si è accontentato di fare solo il tecnico; si è buttato, con coraggio e volontà, in politica. Il fatto è che pensiamo sempre che la politica riguardi qualcun altro, e così ci siamo trovati a essere governati da uno che vendeva le bibite allo stadio».

C’è un motivo particolare per cui ha deciso di uscire con un libro proprio quest’anno?

«Ammetto di aver avuto qualche remora, ma alla fine mi è sembrato il momento giusto. Nonostante il Covid, nonostante tutto. Mi sono convinto che è proprio nelle crisi che ha senso progettare il domani. La gente ha bisogno di una prospettiva, di un piano, di non sentirsi schiacciata sul presente. E io penso, con questo libro, di aver dato il mio piccolo contributo».

Un contributo che ha dei temi cardine: immigrazione, lavoro, merito, sussidiarietà. Tutti argomenti che non sono ai primi posti dell’agenda del Pd.

«Allora facciamoli diventare tali! Io provo a riaprire una porta. Come ho già detto, al momento della sua nascita il Pd prendeva anche “parole” dall’altro campo: merito, talento. Sono parole più del mondo della destra che della sinistra. Ma se vuoi vincere e rappresentare la maggioranza dei tuoi cittadini, non puoi lasciarle agli altri. Se questi concetti oggi sono parte di una componente minoritaria nel Pd, amen: lavoriamo per renderli parte di una componente maggioritaria. È vero, forse oggi siamo nel momento in cui il pendolo, dopo la stagione di Renzi, è andato dall’altra parte. Ma succede, è fisiologico».

Uscendo dai confini del Pd, lei scrive che quella odierna è la peggior classe dirigente dal dopoguerra.

«Mi riferisco ai Cinque Stelle. E lo penso. Noi italiani - perché sono stati eletti, eh - ci siamo talmente arrabbiati, spaventati, da aver messo a governare il Paese la classe politica meno competente di sempre. Cioè, che Di Maio faccia il ministro degli Esteri e la Azzolina quella dell’Istruzione sono dati di fatto».

Ma il Pd sta governando con loro.

«Lo so. E al momento dell’alleanza, un anno fa, pur col mal di pancia mi sono espresso a favore. A differenza di altri, non ho mai pensato che il rischio fosse di cadere in un nuovo fascismo, avevo però paura che il governo potesse andare in mani irresponsabili. Lo stato di necessità ha giustificato quell’alleanza. Ma un conto è lo stato di necessità, un altro immaginare che quella sia una nuova alleanza perenne e che Conte possa essere il punto di riferimento dei progressisti. Questo non lo penso, rischia di portarci fuori strada e ci avvia verso politiche economico-sociali che ritengo siano quelle sbagliate per il nostro Paese».

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