Tutto quel che c’è da sapere sul crollo del prezzo del petrolio
In questi giorni la storia dell’economia mondiale e degli equilibri geopolitici internazionali rischiano realmente di cambiare. Come spesso accaduto nelle ultime tre decadi, il merito (o la colpa) è del petrolio, cioè la principale fonte energetica attualmente usata sulla Terra. Giovedì 27 novembre si è tenuto, a Vienna, il 166esimo meeting dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. Una riunione acclamata a gran voce dai Paesi membri a fronte dell’inatteso crollo del prezzo del greggio su scala internazionale. Membri dell’Opec sono Algeria, Angola, Libia, Nigeria, Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Ecuador e Venezuela. Gli Stati membri dell’organizzazione si sono così seduti attorno ad un tavolo per valutare le possibili mosse con cui affrontare la situazione, che vede il costo del greggio, a barile, ai minimi storici dal 2010 (prima dell’incontro il prezzo era sceso sotto i 78 dollari).
Le ipotesi sul tavolo erano principalmente due: mantenere stabile la produzione a 30 milioni di barili al giorno attendendo che il mercato si stabilizzi da sé, oppure puntare forte sulla riduzione della produzione, nel disperato tentativo di far tornare a salire i prezzi e tagliare fuori dal mercato i nuovi produttori che si sono imposti negli ultimi mesi, in particolare in America. Alla fine ha vinto la linea più “soft”, guidata dall’Arabia Saudita: l’Opec ha deciso di non tagliare la produzione. La decisione ha fatto ulteriormente crollare il costo del petrolio, che tocca il minimo dal 2010 a quota 71,25 dollari al barile.
I motivi della crisi. Come ogni crisi, le sue ragioni non risalgono all’immediato passato. Da diversi anni era nell’aria questo crollo del prezzo del greggio, dopo che, dai primi anni ’90, il costo si era terribilmente impennato per l’aumento costante del suo uso nell’industria mondiale. Una prima ragione è semplicemente ricollegabile alla più semplice legge del mercato: l'offerta, al momento, supera la domanda e così il prezzo non può che scendere. I Paesi che estraggono petrolio, negli ultimi anni, non solo sono aumentati, ma hanno anche aumentato la propria capacità estrattiva nell’estremo tentativo di guadagnare di più e ristabilizzare i propri bilanci messi in ginocchio dalla crisi economica globale. Contemporaneamente la richiesta non è salita come ci si aspettava, sia in Europa che in Cina. Ma la vera goccia che ha fatto traboccare… il barile, è stato il boom di produzione negli Stati Uniti.
Dopo una politica massiccia di investimenti nel settore, cominciata intorno al 2011, oggi l’America sta attraversando un momento petrolifero glorioso. Il merito è tutto del fracking e dell’estrazione del cosiddetto shale oil. Detto in maniera semplice: gli Usa hanno deciso di investire con forza su un metodo estrattivo che era praticamente inutilizzato, anche perché visto come particolarmente rischioso. Il fracking, pompando aria e acqua nel sottosuolo, frantuma le pietre intrise di petrolio che, fino ad oggi, non si riusciva ad estrarre. Come se le pietre fossero delle spugne che si è trovato finalmente il modo di “strizzare”, ottenendo così il petrolio di cui sono ricche. Questo a scapito dei rischi idrogeologici e sismici che il metodo, secondo molti, causa. Gli Stati Uniti sono così arrivati a produrre tanti combustibili liquidi derivati dal petrolio quanti l’Arabia Saudita. Livelli impensabili fino a pochi anni fa.
Le spaccature nell’Opec. Parlando di Opec, bisogna dire che al suo interno non sono rappresentati tutti gli Stati al mondo che effettivamente esportano petrolio. In essa, ad esempio, non ci sono Messico, Russia e Norvegia. La crisi attuale ha però portato l’Organizzazione ad aprire un dialogo fitto con queste Nazioni, in particolare con la Russia di Putin, che dopo le sanzioni inflitte dall’Occidente, sta vivendo un periodo nero causato anche dal crollo del costo del petrolio, che rappresenta ben il 50% delle sue entrate fiscali e il 70% del suo export. L’intesa, però, non è arrivata. La Russia chiedeva fortemente un ridimensionamento delle produzione e per questo si trovava in linea con i cosiddetti “falchi” dell’Opec, ovvero Iran e Venezuela, i due Stati che chiedevano con maggior forza una diminuzione dei barili estratti. Questi ultimi, però, si sono trovati sotto, con la maggior parte degli altri Paesi membri dell’organizzazione allineati sulla posizione saudita, ovvero mantenere stabile la produzione e attendere che il mercato si stabilizzi da sé.
Il vero motivo della spaccatura interna all’Opec è, però, che nonostante la politica unitaria che ci deve essere, ogni Paese ha propri interessi e, soprattutto, soglie di break even diverse. Significa che, i vari Stati, necessitano che il petrolio mantenga un prezzo al barile diverso per fare in modo che i propri bilanci pubblici non vadano a gambe all’aria. Per intenderci, per mantenere le previsioni di bilancio per il 2014, l’Arabia Saudita può permettersi (date anche le risorse in denaro accumulate negli anni) che il prezzo scenda di molto, anche se dovrebbe teoricamente equilibrarsi sugli 80/90 dollari a barile, mentre il Venezuela necessiterebbe di una soglia di 162 dollari. Un’enormità. Anche l’Iran, date le sanzioni di cui è vittima per il piano nucleare mai bloccato, avrebbe bisogno di un prezzo ben superiore ai 100 dollari. Alla fine, nel meeting di giovedì 27 novembre, ha vinto la linea saudita, da sempre vera potenza dell’Opec. Ad influire, probabilmente, anche le esperienze passate. Negli anni ’80, infatti, quando il prezzo del greggio era sceso addirittura a 22 dollari a barile, l’Arabia Saudita fu l’unico Stato ad optare per un taglio della produzione. Una scelta che mise in ginocchio la sua economia (che si basa al 90% sul petrolio) e che costò anni di crisi. I sauditi, dunque, memori di quella scelta, hanno spinto molto per evitare una nuova Caporetto economica.
Nel frattempo, a Vienna, è stata presa un’altra decisione storica per l’Opec: per la prima volta dalla sua fondazione (1960), presidente dell’organizzazione sarà una donna, Diezani Alison-Madueke, attualmente ministro del Petrolio nigeriano.
Le conseguenze della scelta. L’Iran, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, ha deciso di allinearsi con la decisione, mentre dall’altra parte della barricata, resta praticamente solo il Venezuela, che ha disperato bisogno di un’impennata dei prezzi del petrolio e vorrebbe mettere all’angolo la produzione americana. Erroneamente però. Infatti, se il costo del greggio continuasse a calare, la produzione di shale oil americana potrebbe subire un brusco rallentamento. La procedura di estrazione usata in America, infatti, è assai costosa. Se il prezzo del greggio internazionale continuasse a scendere, le industrie americane potrebbero tornare a trovare più conveniente l’acquisto da esterni, mandando ko tante piccole società che si sono indebitate enormemente per lanciarsi in questo nuovo redditizio settore.
Altra conseguenza, che ci tocca invece più da vicino, è che il crollo del prezzo del petrolio spinge al ribasso anche quello dei carburanti. Secondo quanto riportato venerdì 28 novembre da Quotidiano Energia, l’Eni è pronta a tagliare di 1,5 centesimi al litro i prezzi sia della benzina sia del diesel. Non un’enormità, certo, anche perché, sul totale che noi paghiamo ai distributori, in realtà solo il 40% del prezzo totale è legato effettivamente al costo della carburante, mentre il restante 60% è composto dalle più svariate tasse (le famose accise). Ma è comunque qualcosa. Anche per questo, il crollo, secondo qualcuno, può e deve essere un volano per far ripartire, almeno in parte, le economie del Vecchio Continente, sino ad oggi impossibilitate a muoversi con libertà nel mercato dell’energia globale.