Scoperto un illustre antenato Chi era e com'era l'Homo naledi
Non lontano da Johannesbug è stata fatta una scoperta epocale che ha già cambiato la paleontologia. I prodromi dello straordinario ritrovamento risalgono al 2013, quando alla porta di Lee Berger, studioso della University of Witwatersand della città sudafricana, ha bussato un giovane geologo con in mano il frammento fossile di una mascella. Poco dopo, i due hanno contattato il National Geographic e hanno stappato lo champagne. Sapevano che quel prezioso resto sarebbe stato seguito da nuove sorprese. La loro valutazione si è dimostrata corretta: oggi tutto il mondo sa che la grotta Rising Star, situata a circa cinquanta chilometri dalla città sudafricana, ha rivelato il suo segreto più prezioso.
Gli astronauti del sottosuolo. Rising Star fa parte di una regione del Sudafrica che fin dal Novecento era nota agli archeologi per essere la “culla dell’umanità”. Era infatti estremamente ricca di una grande quantità di reperti risalenti al periodo preistorico. A quanto pare, la “culla dell’umanità” ha continuato a riservare grandi e inaspettate scoperte. A circa novanta metri sotto il livello del suolo, Rising Star custodiva numerosi resti fossili. Portarli alla superficie non è stato affatto semplice, dato che i resti si trovavano all’interno di una cavità il cui accesso era consentito solo da un pozzo molto stretto. Nella prima spedizione, avvenuta nel 2014 e durata più di ventun giorni, oltre sessanta speleologi e scienziati hanno lavorato insieme per rimuovere i fossili. Il compito ha richiesto un team speciale di ricercatori snelli, soprannominati dai loro colleghi “gli astronauti del sottosuolo”, i quali sono riusciti a recuperare il materiale. Il team era composto esclusivamente da sei donne, selezionate su base internazionale. Le specialiste sono dovute passare attraverso diverse camere ipogee, collegate tra loro da un “corridoio” molto angusto, ma alla fine ce l’hanno fatta e hanno raggiunto la camera Dinaledi, dove si trovavano i resti. Tra di loro c’era anche Marina Elliott, che ha descritto l’operazione come «una delle condizioni più difficili e pericolose mai incontrate nella ricerca sulle origini umane». I fossili sono stati analizzati nel maggio 2014 da più di cinquanta specialisti, i quali hanno affermato trattarsi di 1500 resti ossei e organici appartenuti a quindici individui di una specie umana di cui finora non si è mai avuta notizia.
Homo naledi, nostro antenato. L’uomo ha quindi un antenato in più. I ricercatori lo hanno chiamato Homo naledi e, benché siano venuti a conoscenza della sua esistenza da pochi mesi, sanno già moltissimo sul suo conto. Lee Berger, che ha guidato le operazioni di recupero dei resti, ha dichiarato: «Abbiamo a disposizione esemplari multipli di quasi tutte le ossa del suo corpo. Abbiamo trovato di tutto, dai neonati fino a individui anziani. Homo naledi è già praticamente la specie fossile meglio conosciuta nella linea evolutiva dell'uomo». Questo illustre antenato dell’uomo doveva essere alto circa un metro e mezzo, era di corporatura snella (pesava al massimo 45 chili) e il suo cervello non occupava più spazio di un’arancia. Tuttavia, l’evidente antichità inerente alla conformazione cranica si accompagna ad alcuni elementi di straordinaria modernità. I piedi sono identici ai nostri e le mani erano fatte per lavorare: «Le mani appaiono adatte all'utilizzo di utensili, ma le dita sono molto curve, il che fa pensare che fosse molto bravo ad arrampicarsi», ha spiegato Tracy Kivell dell’Università del Kent. Insomma, un vero miscuglio di primitività e “modernità”. Le caratteristiche dei piedi e delle gambe slanciate, inoltre, inducono a ritenere che la specie fosse avvezza a camminare molto.
Perché Homo naledi era un vero essere umano. Ai tratti anatomici che distinguono Homo naledi da qualsiasi altra specie finora nota, si aggiunge l’ipotesi secondo cui l’ominide seppelliva già i suoi morti, almeno a giudicare dalle caratteristiche del sito di scavo dove sono stati ritrovati i suoi resti. La profondità a cui erano collocate, la difficoltà stessa del recupero, fanno pensare che le ossa erano state poste nella grotta come in una sorta di tomba; non si spiegherebbe altrimenti la cura messa nel nascondere e proteggere i resti. Paul Dirks della James Cook University nel Queensland, dichiara: «Quella camera [ipogea] è stata sempre isolata dalle altre e non è mai stata direttamente aperta verso la superficie. Soprattutto, in questo remoto anfratto mancavano fossili appartenenti ad altri animali di rilievo; c'erano praticamente solo resti di Homo naledi». Lee Berger sostiene le parole del collega con altre osservazioni: «Abbiamo esplorato tutti gli scenari alternativi. Una strage, la morte accidentale dopo essere rimasti intrappolati nella grotta, il trasporto da parte di un carnivoro sconosciuto o di una massa d'acqua, e altri ancora. Alla fine, l'ipotesi più plausibile è che gli Homo naledi abbiano intenzionalmente depositato laggiù i corpi dei defunti». Gli unici altri elementi organici trovati dagli scienziati, circa una dozzina, erano quelli di topi e uccelli, probabilmente caduti accidentalmente nella cavità. Le ossa degli ominidi non mostravano di essere state attaccate da predatori o saprofagi e di sicuro non sono state trasportate da agenti esterni, come un flusso d’acqua o uno smottamento del terreno. Se è vero che l’homo naledi seppelliva i suoi morti, è necessario riconoscergli l’appartenenza di diritto alla specie umana, poiché l’inumazione implica la capacità di pensiero e la consapevolezza della propria mortalità.
In attesa di nuove scoperte. L’antichissima specie dell’Homo naledi, dunque, potrebbe essersi avvalsa di una pratica rituale che gli storici ritengono essere appannaggio degli esseri umani sapiens sapiens. Ma per avere notizie più certe riguardo all’ominide bisognerà attendere gli sviluppi delle ricerche. Come ha promesso Berger, «Questa grotta non ha ancora svelato tutti i suoi segreti. Ci sono ancora centinaia, se non migliaia di resti ancora da studiare sepolti laggiù». Al momento, la bibliografia scientifica dedicata alla scoperta consiste in un articolo pubblicato sulla rivista online eLife e nell’approfondimento che uscirà nel numero di ottobre del National Geographic, la quale peraltro si è accollata l’onere/onore di finanziare l’intero progetto.