Una nuova era

Chi sono i veri padroni (online) della cultura e dell'informazione

Chi sono i veri padroni (online) della cultura e dell'informazione
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Il 90 per cento delle ricerche online è effettuato con Google, Facebook detiene l’80 per cento del traffico social sui dispositivi mobile; Amazon gestisce circa il 75 per cento delle vendite di e-book. Partendo da questi dati, nel suo volume Move Fast and Break Things: How Facebook, Google, and Amazon Cornered Culture and Undermined Democracy lo scrittore americano Jonathan Taplin analizza il ruolo e le conseguenze delle azioni delle grandi compagnie tech nella gestione delle informazioni e della cultura.

 

 

Per capire in che modo funzionano i monopoli esercitati da Amazon, Google e Facebook basta capire che cosa c’è dietro il traffico online, ovvero le informazioni seminate dagli utenti navigando sul web. Proprio sulla vendita del traffico, e soprattutto dei dati in esso racchiusi, si basa il modello di business di Google, in un meccanismo che sta erodendo il potere di tante compagnie della comunicazione e dello spettacolo, che alle industrie tech forniscono i contenuti sui quali si genera il traffico online. Cosa vuol dire tutto questo? Significa, ad esempio, che, se Google non favorisce la pirateria certamente non ha interesse a fermarla, dato che la disponibilità online di materiale richiesto dagli utenti genera maggior traffico. La pirateria, del resto, non riguarda certo solo video e musica. Ci sono anche forme “più sottili” del fenomeno, come quelle legate a giornali come Huffington Post, nato aggregando contenuti da altre pubblicazioni, come il Times o il Washington Post. Per non parlare dei Google Books, che forniscono online scannerizzazioni di libri senza consultare i proprietari dei diritti d’autore.

 

 

Di fronte a questa situazione quello che molte testate hanno fatto è stato richiedere ai lettori delle sottoscrizioni per accedere agli articoli completi. Ma non è bastato neanche questo. Gli articoli protetti dalle sottoscrizioni, infatti, raramente raggiungono la popolarità che li rende appetibili sul web, generando attorno ad essi un traffico altamente remunerativo. Il risultato è che molti dei migliori articoli non arrivano mai a un livello di popolarità da renderli virali. Notizie irrilevanti, invece, riescono a diffondersi globalmente grazie ad un meccanismo di popolarità online che nulla ha a che fare né con l’importanza né con l’attendibilità delle informazioni. Non sono più i produttori del Times, della CBS o del Washington Post a decidere cosa vale la pena di essere visto. Nell’era di internet, auspicato come strumento  di distribuzione egualitaria della cultura e delle informazioni, la rete ha creato nuovi monopoli dell’informazione. Invece che al pubblico, dati e cultura sono stati affidati ai nuovi monopoli di Google, Amazon, Facebook e Apple.

 

 

L’informazione si basa quindi su servizi come Chartbeat, web analytics per le aziende che permette di monitorare e capire il comportamento degli utenti online, mostrando, ad esempio, quante (poche) persone vanno a leggere report integrali su situazioni geopolitiche lontane. Il risultato? Essendo poche le persone interessante a questi argomenti, di quei report ne verranno fatti sempre meno, sottostando alla regola del web, dove si dà agli utenti ciò che vogliono. Sarebbe una soluzione quella di trattare le grandi aziende tech come dei monopoli, tassarle e sottometterle a delle regole adeguate? O si dovrebbero pensare soluzioni alternative, come creare delle linee di distribuzione autonome e indipendenti delle informazioni? Lungi dall’essere diventata uno strumento democratizzante, la rete non ha cancellato le barriere all’ingresso per la fruizione delle informazioni. Quello che accade ora è che le grandi aziende tech riescono a guadagnare con i flussi di informazioni generati da contenuti creati da altri.

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