"Civil War", la fotografia come ultimo baluardo di civiltà
Alex Garland ci porta la guerra in casa, con tutti i suoi orrori, ma non ha il coraggio di contestualizzarla
di Fabio Busi
La guerra non è mai banale, soprattutto se il teatro in cui si svolge sono gli Usa. In “Civil War” la strategia di Alex Garland ha il merito di mostrare l'orrore in uno scenario inedito, che riscrive la nostra percezione dei limiti e delle aberrazioni di ogni scontro armato. Perché questa volta non siamo lontani nello spazio-tempo, non stiamo osservando un'epoca antica e oscura, non ci sono terroristi né guerre intergalattiche.
L'uomo-bestia è vicino, si muove intorno alla capitale, pattuglia Charlottesville, assedia la Casa Bianca. Garland vuole suggerirci che noi, occidentali civilizzati, forse non siamo così diversi dai popoli di Caoslandia, perché se la guerra fosse in casa nostra ci piegheremmo alla medesima ferocia, come per un retaggio dell'umanità tutta. Il regista e sceneggiatore racconta con un taglio giornalistico, attraverso le disavventure di un gruppo di reporter in avvicinamento a Washington, dove il presidente è asserragliato.
Miriadi di foto, forche caudine qua e là nel percorso conoscitivo che rappresenta la leva più forte del film: è necessario raccontare e fotografare, inseguendo il male che prospera e che potrebbe prendersi la nostra vita. È necessario perché quando la guerra dilaga viene meno ogni valore umano, ogni garanzia civile, e l'occhio del fotografo rimane l’ultimo baluardo della civiltà. Solo immortalando quelle oscenità è possibile pensare un giorno di distinguere tra ciò che è stato fatto di lecito (pur nello scenario bellico) e quanto invece ha superato ogni limite.
Un film meno tagliente di quanto ci si poteva aspettare, perché di fatto non dice nulla di nuovo, pur dicendolo bene. Forse, il punto debole sta nella cornice bellica, che non viene più di tanto spiegata o contestualizzata. Sappiamo solo che c'è un presidente illiberale, che alcuni stati gli sono leali e altri gli fanno guerra, ma è un po' poco per un lavoro che si pone come il più provocatorio dell'anno. Certo, andare più nel dettaglio sarebbe stato rischioso (immagino le polemiche) e forse Garland non se lo può ancora permettere.