La recensione

Con “Babylon” anche Damien Chazelle ci vuole spiegare cos’è il cinema

Come Tarantino, Spielberg e Sorrentino, così il regista statunitense sente il bisogno di raccontare la settima arte

Pubblicato:

di Fabio Busi

Ascesa e declino delle star di Hollywood, all’epoca del passaggio dal muto al sonoro, “Babylon”, di Damien Chazelle. Un’ossessione, quasi un'allucinazione ritmica, percorrendo in lungo e in largo i set dove si costruiscono le storie e si distruggono le esistenze. Una sbronza di suoni, immagini, corpi aggrovigliati, luci, polvere, per arrivare a dire una cosa: il sogno chiamato cinema si nutre delle membra e delle vite degli attori, destinati a patire la fine di quella meravigliosa illusione. Nessuno si salva, solo la pellicola rimane: una lacrima che solca il viso, infinite volte.

La prima ora fugge via senza respiro, un sax sincopato accompagna la grande sequenza: feste feroci, l'estasi della carne, il delirio d'onnipotenza di un mondo che si sente immortale. La gioia del cinema muto è nel rumore, un frastuono tra set appaiati, registi che urlano, che strepitano. Le cineprese si rompono, le comparse scioperano, una bellezza spesso non pienamente voluta, ma figlia di situazioni fortuite. Tra depravazione e pressappochismo, è facile arrivare in cima.

Il sonoro porta problemi alle star, incapaci di recitare davvero. La voce amplifica a dismisura le possibilità espressive e innalza le aspettative. Hollywood non risparmia nessuno, per tante stelle si tratta solo di scegliere come tramontare. Con quanta dignità.

Anche la tensione creativa di Chazelle a un certo punto rallenta e perde un po' di forza. Il suo cinema è una sinfonia, più adatto a costruire scenari che a raccontare vicende specifiche. I suoi protagonisti seguono un canovaccio ripetitivo, sono costretti dai loro limiti. Brad Pitt è l’attore affermato, Margot Robbie la diva-arrampicatrice del momento. Secondo traiettorie diverse, le loro carriere dovranno scontrarsi con la capacità o meno di reinventarsi, addomesticarsi, imparare.

Più interessante la parabola del messicano Manny, che (“come uno scarafaggio”) coglie le occasioni e accresce il suo status poco per volta.
Come Tarantino, Spielberg, Sorrentino, così Chazelle sente il bisogno di spiegare cos’è il cinema, le origini, i cortocircuiti, l'umanità che si muove intorno a una macchina da presa. Tutti quanti lo fanno perché sanno di essere davanti a un momento critico. Quest’arte è a rischio, potrebbe imboccare una via di non ritorno, e quindi mai come oggi è necessario consolidarla alla base, raccontandola nella sua storia, nelle sue contraddizioni, ma nella sua capacità, in mezzo a tanta feccia, di consegnare una scintilla di autenticità che scavalca il tempo, fissa una suggestione che non può morire.

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