bici da lavoro

Dall’ombrellaio al parroco, a Zanica un libro racconta il mondo a pedali di una volta

L’associazione «Frammenti di storia» ha presentato «Lavorare su due ruote», con 62 fotografie di biciclette da lavoro storiche e aneddoti collegati. Il riparatore portava i figli in gabbia, per evitare che scappassero. L’ostetrica veniva chiamata «comàr»

Dall’ombrellaio al parroco, a Zanica un libro racconta il mondo a pedali di una volta
Pubblicato:

di Matteo Simeone

Un passato lontano «da ricordare», come affermato dagli scrittori e dalle autorità che hanno partecipato alla presentazione dello scorso venerdì. Si parla del libro «Lavorare su due ruote», edito dall’associazione zanichese «Frammenti di storia», con l’ausilio di altre realtà del paese. Si tratta di una raccolta di 62 fotografie, che ritraggono le venti biciclette da lavoro possedute dall’associazione. Accanto agli scatti, una ricostruzione di come venivano usati dai lavoratori questi mezzi; biciclette di artigiani, che si spostavano di casa in casa nella Bergamasca. Dei ricordi che, per ammissione di Pier Angelo Esposito e Fiorenza Varinelli (rispettivamente presidente e segretaria di «Frammenti») sono stati raccolti da anziani zanichesi e da due libri che parlavano dell’argomento.

Basandoci sui ricordi, siamo riusciti a scoprire quali erano le biciclette che, fino agli anni Sessanta, si potevano vedere a Zanica. Si tratta dell’arrotino, dell’ombrellaio, dell’ostetrica, del norcino, del prete e del falegname. Tutti mestieri che hanno lasciato un ricordo colorito nelle menti degli zanichesi che hanno conosciuto quella realtà. Un mondo sicuramente più povero rispetto a quello attuale. Come testimoniano le storie che, in qualche modo, può raccontare la bici dell’ombrellaio: i figli delle famiglie più modeste venivano affidati loro «per imparare il mestiere». Questo «significava tornare a casa solo rare volte l’anno e vivere una vita di stenti». Andava però peggio agli apprendisti degli spazzacamino: «Bambini di 8 o 10 anni» che dovevano risalire le cappe dei comignoli e che, spesso, si infortunavano o addirittura morivano nello svolgere il loro lavoro. Che veniva pagato al titolare dell’attività, mentre loro ricevevano in cambio un luogo per dormire e un poco di cibo.

Continuando a parlare di questi due mestieri, un aneddoto accaduto al Padergnone di Zanica fa ben comprendere cosa significasse essere «mandato con l’ombrellaio»: le madri, infatti, minacciavano i figli disubbidienti di farli portare via dall’artigiano. La particolarità di questo racconto sta nel fatto che il riparatore di ombrelli, che lavorava anche al Padergnone, portava con sé i propri figli. Per farlo, aveva un carretto sul quale era montata una gabbia. Dentro, per evitare che scappassero, c’erano proprio i bambini dell’ombrellaio. Dei bimbi che, alla partenza, sembrava venissero rapiti dell’uomo, terrorizzando i piccoli abitanti del borgo. Un mondo povero, dunque, ma anche molto pudico: l’ostetrica, si racconta, non era mai chiamata per nome. Anche lei aveva una sua bicicletta, con la quale raggiungere le partorienti nelle varie cascine. Non veniva mai nominata, si diceva, ma si usavano epiteti in dialetto come «chèla dòna», letteralmente «quella donna», o «comàr».

A proposito di quest’ultimo termine, alcuni anziani ricordano che a Zanica esisteva la «comàr» vera e propria e la «comarì». «Dal 1930 circa - racconta Fiorenza - l’ostetrica doveva essere diplomata per poter esercitare. In paese alcuni anziani ricordano del fatto che, accanto alla “comàr”, ci fosse anche un’amica che l’assisteva nel suo lavoro. Questa aveva anni di esperienza sul campo, ma non l’abilitazione professionale. Dunque, le venne dato l’appellativo di “comarì”, piccola comare».

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La bicicletta del parroco, racconta invece di una religiosità molto sentita. Ma anche di un clero figlio del suo tempo: sul finire dell’Ottocento il velocipede venne perfezionato, fino a diventare quella che oggi è la bicicletta. Per questioni di «decoro morale», la Chiesa inizialmente vietò ai parroci l’utilizzo di questo mezzo; una notizia che, durante la presentazione, ha colpito anche don Omar Moriggi, curato di Zanica. Solo a partire dal pontificato di Benedetto XV, tra il 1914 e il 1922, anche i sacerdoti poterono iniziare a usare quel mezzo di trasporto per raggiungere i fedeli.

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