“Io capitano”, un miracolo di bravura e purezza
Matteo Garrone racconta l’immigrazione dall'Africa ripulendola da qualsiasi connotazione ideologica
di Fabio Busi
Garrone materializza davanti ai nostri occhi l'orrore di cui tanti parlano, ma che pochi conoscono davvero. “Io capitano” racconta una delle questioni più abusate nei talk show, l'immigrazione clandestina dall'Africa, e la ripulisce da qualsiasi connotazione ideologica, consegnandoci una visione purissima dell'umanità e delle sue cancrene, senza dare lezioni o applicare etichette.
Seydou e Moussa non scappano da guerre, ma inseguono il sogno del successo, della fama come musicisti, della rivalsa sui bianchi. Scappano dalle loro madri in Senegal, illudendosi di poter facilmente arrivare in Libia e poi sulle sponde d'Europa. Il film non parla degli sbarchi, ma dell'inferno che li precede. Homo homini lupus, unica legge in quelle terre.
Il regista romano compie un mezzo miracolo. Tiene insieme un taglio quasi documentaristico (il film non è doppiato, i protagonisti sono “presi dalla strada” a Dakar e al momento vivono a casa della madre di Garrone), un iperrealismo scabro come sempre e la capacità di dare vita e anima ai personaggi, facendo parlare gli occhi e le membra dei suoi (premiati) attori da “neorealismo africano”. Di più: pur nello stringente hic et nunc, trasforma il dato cronachistico (purtroppo inflazionato) in una visione più grande, un dramma universale. Accosta alla polvere e al sangue rappreso la dimensione ideale dei sogni, l’utopia estrema di un bene che si stacca da terra e vola a mezz’aria.
Il film funziona per tutti i pubblici: chi non è informato resterà esterrefatto. Non di meno, anche i più attenti resteranno colpiti, quasi tramortiti. Perché un conto è sentirlo dire al tg, altro è vivere l'orrore al fianco di Seydou. E Garrone con la cinepresa gli cammina a pochi centimetri, ne sente i battiti e i respiri.
Pur nella scansione narrativa semplice, il cineasta compone una sorta di poema desertico fatto di inquadrature larghe, giochi geometrici, musiche insistenti. Una visione che non si arrende mai al pessimismo, sembra anzi cercare il seme della vita, lo scatto che salva, la nota che riaccende l'entusiasmo. Non aggiunge mai peso ulteriore, semmai cerca di alleggerire, di dare un passo brioso, anche quando la morte sembra incombente. Sa essere lieve senza togliere nulla alle emozioni, anche le più distruttive. Non è superficiale, semplicemente “plana sulle cose dall'alto”.
Di fronte ai cadaveri e alle angustie più estreme, non viene voglia di arrendersi. Al contrario, le sparute scintille di umanità rifulgono più brillanti, in una notte così nera. Soccorrere un'anziana nel deserto, volare indietro come un angelo, dalla mamma, vagare alla ricerca del cugino (è una promessa), guidare un'imbarcazione stipata di uomini, assumendosi la responsabilità delle loro vite. Mai come in questa storia, il bene si mostra come una scelta tutt'altro che facile; è quasi impossibile, ma c'è chi non si arrende alla banalità dell’uomo lupo. Seydou scorge un’ombra in lontananza: «Terra!».