Quella lapide a Porta San Lorenzo

La bella storia del capitano Zeno, l'unico che nella peste del 1630 non scappò da Bergamo

I maggiorenti, i nobili, tagliarono la corda. Venne formato un Comitato di salute pubblica che pure se la squagliò e in pratica non si riunì mai. Rimase soltanto lui, valoroso vicepodestà della Repubblica di Venezia

La bella storia del capitano Zeno, l'unico che nella peste del 1630 non scappò da Bergamo
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di Paolo Aresi

C’è una piccola lapide sulla parete interna della porta di San Lorenzo, sulle Mura. C’è scritto: «A G. A. Zeno vigilantissimo nell’anno 1630 ciové l’anno della peste finita. L’anno 1631, lodato sia Dio».

Non è facile notare questa lapide, se entrate sotto la porta scendendo da Città Alta e guardate bene la trovate in alto a sinistra. Ma perché venne posta? E chi era questo G. A. Zeno?

La peste si affacciò anche su Bergamo verso la fine del 1629. Si presero subito provvedimenti, la guardia alle porte fu resa più fiscale, da quel novembre non poterono più transitare persone prive della «fede di sanità»; i bergamaschi che si trovavano fuori città non potevano rientrare se non provvisti di specifica licenza. Ma le cose andarono lo stesso peggiorando e la situazione esplose nell'aprile del 1630, quando la peste bubbonica afferrò strade e case della nostra città. I maggiorenti, i nobili, tagliarono la corda. Venne formato un Comitato di salute pubblica che pure se la squagliò e in pratica non si riunì mai. Rimase soltanto il capitano della Repubblica di Venezia, Giovanni Antonio Zen, il quale era vicepodestà: fu l’unico punto di riferimento del potere civile in quella Bergamo martoriata. Per aiutare i suoi cittadini, Zen arrivò a dare mille scudi dei suoi e a impegnare l’intera argenteria di famiglia. Un uomo così andrebbe davvero ricordato.

Furono giorni terribili per Bergamo, per certi aspetti non così dissimili, sebbene assai più spaventosi, rispetto a quello che abbiamo vissuto in questo 2020, trecentonovanta anni dopo. Ma, in fondo, che cosa sono quattro secoli? Sono quattro persone centenarie che si toccano la mano, una che nasce e una che è ai suoi ultimi giorni. Soltanto quattro persone.

A Bergamo la peste arrivò a causa di un periodo di carestia e probabilmente anche per il passaggio dell’esercito tedesco, i famigerati lanzichenecchi, mandati dall’imperatore Ferdinando II. C’era infatti in atto una guerra tra spagnoli e francesi causata dalla successione al ducato di Mantova.

Spiega Emilio Moreschi che è studioso di storia locale, e amministratore della Fondazione Bergamo nella Storia: «Ghirardelli scrisse la cronaca della peste a Bergamo, ma morì alla fine dell’epidemia. I figli non vollero pubblicarla perché quelle parole avrebbero dato fastidio a tanti nobili e notabili. Venne pubblicata cinquant’anni dopo, nel 1681, e diventò poi un testo al quale si riferì Alessandro Manzoni nel racconto della peste a Milano, ne “I Promessi Sposi”.
Il libro ha per titolo “Il memorando contagio”. Racconta anche di Giovanni Antonio Zen, nominato capitano di Bergamo e vicepodestà nel marzo del 1630. Zen prese diversi provvedimenti. Ordinò che le lettere provenienti da Milano venissero affumicate e portate a Bergamo con cautela. Al tempo non si sapeva dell’esistenza di virus e batteri, tuttavia si sospettava che esistessero delle sostanze invisibili che in qualche modo potessero portare il contagio e si sapeva che il fuoco, e quindi i fumi, potevano in qualche modo “disinfettare” (sebbene l’idea di disinfezione ancora non fosse chiara). Anche se c’erano pure allora i “negazionisti” che minimizzavano il pericolo che indicavano negli allineamenti degli astri la ragione dell’epidemia.

L'articolo completo a pagina 7 del settimanale PrimaBergamo in edicola fino a giovedì 7 maggio, oppure in edizione digitale QUI.

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