La rapacità dei bianchi nel western “revisionista” di Martin Scorsese
“Killers of the Flower Moon” mostra il silente sterminio di un popolo per il petrolio
Di Fabio Busi
Tra i gangster di Scorsese, forse questo Bill Hale (De Niro) riesce a essere il più spietato in assoluto. Perché “Killers of the Flower Moon” ripropone in qualche modo gli stessi temi che attraversano i vari “Goodfellas”, “Casino”, “Mean Streets”. La rapacità di certi uomini e il disprezzo per la vita umana a fronte di facili guadagni. Sempre di boss e assassini si parla, ma sta volta è diverso. Fa più male perché la mano che pugnala è la stessa che poco prima ha accarezzato quei volti olivastri.
L'uomo bianco divora lentamente la comunità di indigeni Osage, colpevoli di aver trovato petrolio e ricchezza in una terra altrimenti avara di tutto, in Oklahoma. Come una cancrena gli avventurieri invadono il paese, si mettono al servizio, sposano quelle donne così ricche e annoiate. Siamo negli anni '20 del secolo scorso e i pistoleri non sono scomparsi. Semplicemente stanno più attenti, uccidono di nascosto, sanno fare la faccia gentile. Siamo su coordinate western, nella sostanza più che nella forma.
La storia dell'America affonda così le radici nel crimine e nel sangue, in un razzismo di fondo che nessuno si sogna di mettere in discussione. La morale per i “gringos” è doppia, tutti sanno del marcio che prospera sottotraccia, ma per loro è giusto così. Il diabolico Bill manovra come un puparo il nipote Ernest (DiCaprio) in una spirale dove le cure per la famiglia si alternano a sospette esecuzioni. Ernest sposa una purosangue, ricca ereditiera, e all'improvviso i membri della sua famiglia iniziano a morire come mosche.
La tragedia della rapacità fa ancora più ribrezzo qui perché malamente camuffata, silenziata tra scene d'affetto e compassione. Ernest cura la moglie con l'insulina, ma intanto la avvelena. Il diavolo bianco non ha mai fatto tanto orrore. La sua corruzione, la putrefazione dell'anima, si mostra nei volti. DiCaprio assume espressioni di una angustia mai vista, bocca e fronte si deformano in un grido muto di disperazione, il dolore di un uomo che sta compiendo il male supremo e non riesce a smettere di farlo.
Pochi i momenti vivaci: è un lento crepuscolo, un'agonia prolungata, dove i colpi di pistola sono rari e mai enfatizzati, perché la tragedia è tutta dipinta nelle maschere d'ipocrisia di quegli uomini che si professano protettori di chi, in verità, stanno uccidendo. Il loro imbarazzo è quello di una nazione intera. Scorsese si reinventa in una dimensione più meditabonda, dove l'adrenalina lascia spazio al ritratto sociale, umano, storico. Ogni inquadratura ci parla, la fotografia di Prieto scolpisce i volti. Musiche sornione e tribali, un incedere accurato, che non nasconde quasi nulla, ma tiene aperta la questione morale. Non ci sono grandi motivi di suspense, tutto è chiaro e ineluttabile (forse), eppure restiamo incollati alla poltrona per 206 minuti, perché vogliamo capire di più, ragionare su una simile mostruosità, sondare l'anima di Ernest Burkhart, cercare. È rimasta una scintilla di umanità?
Il revisionismo è quello dell'infinità di film western che ci propinano i bianchi invasori di terre altrui come i buoni. La storia mi sembra che si ripeta anche ai giorni nostri...