Quando Venezia schierò 15 mila soldati contro Bergamo, che difendeva Sant'Alessandro
La città scese in piazza per opporsi alla demolizione dell’antica basilica per fare spazio alle Mura. La distruzione del tempio svelò reperti che fecero luce sulla vicenda del patrono di Bergamo. Una riedizione del libro di Roberto Alborghetti.
di Stefano Alberti
Nell’agosto di 459 anni fa Bergamo visse giornate cariche di tensione, come forse mai avvenne sotto il dominio della Repubblica di Venezia. La città organizzò una vera e propria resistenza civile nei confronti della Serenissima che il 1° agosto 1561 aveva dato inizio alla demolizione dell’antica basilica di Sant’Alessandro, ove da secoli riposavano le spoglie del martire patrono della città e della diocesi. Venezia voleva raderla al suolo - insieme ad altre case e chiese ed alle coltivazioni - per erigere le possenti mura difensive che ancora oggi cingono la città antica. Di fronte ai tumulti popolari - faticosamente repressi da almeno 15 mila soldati, così dicono le cronache - le autorità lagunari non fecero una piega. Il sacro tempio alessandrino andava eliminato: era solo un ostacolo alla costruzione di un nuovo sistema difensivo che, nel giro di pochi anni, si rivelerà sostanzialmente inutile, visto che già stavano cambiando le stesse modalità di “fare la guerra”. Gli inviati della Serenissima, insieme agli oltre tremila guastatori ai comandi del generale Pallavicino Sforza, fecero scempio di un luogo che, per la comunità bergamasca, rappresentava una fede, una religione, una storia. Rappresentava Bergamo.
Attorno ai drammatici eventi dell’agosto 1561 prendono l’avvio le pagine di “Sant’Alessandro, martire e patrono della terra di Bergamo”, libro di Roberto Alborghetti, pubblicato da Velar e riproposto in edizione aggiornata nella circostanza della festività annuale del 26 agosto. Come in una sorta di indagine, Alborghetti - giornalista e scrittore - ricostruisce i contesti storici in cui si snoda la vicenda di Alessandro, propone e verifica fonti e documenti, districandosi tra ciò che è racconto leggendario e oggettiva realtà storica basata sulle più recenti ricerche archeologiche e sui più avanzati studi relativi alle “passiones”, gli atti che narrano il martirio di un santo. Una vicenda, quella del soldato Alessandro - che la tradizione rappresenta come vessillifero della gloriosa legione tebana, costituita dai romani nella regione egiziana della Tebaide, poi decimata per ordine di Massimiano in quanto i legionari avevano professato la fede cristiana - fortemente identitaria per la terra di Bergamo. Lo stesso abbattimento dell’antica basilica ad opera di Venezia aprì una ferita che solo il tempo riuscirà a rimarginare faticosamente. Sotto i colpi di pale e picconi, vennero frantumati pezzi di storia, testimonianze di fede e di arte, espressioni di una devozione popolare che nei secoli aveva portato all’edificazione - sul primitivo sacello che accoglieva il sepolcro di Sant’Alessandro - di un luogo di ineguagliabile splendore: “Sumptuosissimum templum” lo definì lo storico Mario Lupo.
Quell’infausto evento portò alla luce testimonianze considerate determinanti per la storiografia. Mentre le squadre dei guastatori e dei genieri demolivano la basilica, c’è chi ebbe il coraggio e la pietà di recuperare le sacre reliquie del patrono e dei primi santi della chiesa di Bergamo, custodite da secoli nella profondità della terra. Il vescovo Federico Cornaro, con un gruppo di collaboratori, vigilò sul luogo sottoposto a distruzione, soprattutto nell'area del presbiterio, al di sotto del quale si apriva l’antica cripta. Venne così redatta una dettagliata relazione di cui rimarrà memoria nel tempo, svelando notizie di grandissima importanza destinate a far luce non solo sull'entità e sulle dimensioni della basilica alessandrina, ma anche e soprattutto sull'antico sarcofago di epoca romana che aveva accolto le spoglie del martire Alessandro per dodici secoli. Il vescovo Cornaro fece mettere a verbale ciò che egli vide e scoprì, come la bellezza dell’arca sepolcrale sulla quale era chiaramente incisa la scritta “Miles Thebanus” (Soldato Tebano). Sicché, paradossalmente, l’evento della demolizione di un monumento insigne, simbolo della cristianità in terra orobica, divenne il punto di non ritorno del processo di documentazione sulla stessa figura del martire patrono.
Come scrive Alborghetti, fu come una sorta di spartiacque che segnò il passaggio dall’incertezza delle fonti all’acquisizione di notizie certe e verificabili. Un “passaggio” che accompagnò un altro importante movimento: la traslazione dei sacri resti del martire patrono. Dalla storica basilica alessandrina, ormai ridotta a un cumulo di macerie, essi vennero trasferiti - sempre nell’agosto 1561 - nella cattedrale vincenziana, sorta all'interno delle antiche mura cittadine a partire dal V secolo. Anche la monolitica arca sepolcrale fu strappata alla demolizione: troverà prima accoglienza presso il monastero benedettino di Santa Grata e successivamente, all'inizio dell’Ottocento, presso la chiesa di Sant’Alessandro in Croce, dove si ammira tuttora.
Eventi e circostanze, queste, riportate in superficie anche grazie agli scavi archeologici intrapresi dal 2004 nei sotterranei della cattedrale di San Vincenzo e agli studi archeologici sul sarcofago romano che custodì il corpo del santo martire. È un quadro d’insieme affascinante e sorprendente, che il libro di Alborghetti contribuisce a conoscere, accompagnandoci alle origini del cristianesimo a Bergamo. Analisi e ricerche ci trasmettono un complesso di elementi, di dati e di “segni” che aiutano a chiarire la vicenda del patrono di Bergamo. Ossia, la “buona novella” di un giovane egiziano che, vestendo le insegne delle milizie di Roma, fa propria la lezione di Gesù, ne accetta la sfida, fino al martirio, offrendo «quella eroica testimonianza evangelica» che in terra bergamasca ha dato origine «a una sequenza ininterrotta di cristiani, noti o sconosciuti, che hanno fatto di Cristo il centro della loro vita, a partire da Santa Grata che, secondo la tradizione, raccolse il corpo del martire Alessandro e gli diede degna sepoltura» (Papa Giovanni Paolo II, messaggio per il XVII centenario del martirio di Sant’Alessandro, 1997).
La storia del patrono di Bergamo continua del resto ad affascinare la gente e gli studiosi. E l’autore del libro cerca di rispondere a una serie di interrogativi: perché la devozione del protomartire bergamasco ha superato i secoli? Perché è passata indenne tra mutamenti e rivoluzioni che hanno interessato la stessa realtà ecclesiale? Perché è entrata nella considerazione di popoli e civiltà europee, dai Longobardi ai Carolingi? Perché si è estesa anche fuori i confini di Bergamo, lambendo il Meridione d’Italia: a Pescolanciano (Molise) è punto di riferimento per un casato dalle ascendenze templari; a Melfi (Basilicata), suggestiva città normanna, Sant'Alessandro è venerato come patrono. E che dire della straordinaria basilica dedicata a S. Alessandro in Zebedia, sorta a Milano nel V secolo, sul luogo del carcere romano? E perché Autari, re dei Longobardi, costruì nel 585 un tempio in onore del soldato martire nell'odierna Fara d’Adda?
Si parla anche dell’ipotesi che ha portato a identificare il Santo Alessandro di Bergamo con l’omonimo martire dell’Anaunia (Val di Non), compagno di Sisinnio e Martirio, tre chierici originari della Cappadocia inviati dal Vescovo Ambrogio da Milano ad evangelizzare la regione anauniense su richiesta del Vescovo di Trento, Vigilio: furono brutalmente martirizzati nel 397 dai pagani e sono venerati come santi e martiri.
La particolarità della pubblicazione è sottolineata nella prefazione del vescovo di Bergamo, mons. Francesco Beschi che tra l’altro così scrive: «L’agilità “completa” di questo lavoro ha saputo raccogliere, sintetizzare, far trasparire il molto materiale che nei secoli si è raccolto e quasi stratificato intorno alla vicenda del nostro Patrono. Chi non voglia sbrigativamente sbarazzarsi con l’aggettivo “leggendario” del “personaggio Alessandro”, così fortemente attestato nei documenti notarili, negli scritti, nell'iconografia, nella devozione della gente di Bergamo, trova nel lavoro di Roberto Alborghetti una suasiva e coinvolgente pista per ulteriori indagini».