Un “Jojo Rabbit” in salsa romana per Claudio Bisio
Tre fanciulli cercano di raggiungere e salvare l’amico ebreo deportato, tra comicità e crudeli risvolti tragici
di Fabio Busi
Non giova sicuramente il confronto con “Jojo Rabbit” al film di Claudio Bisio da poco nelle sale, suo esordio alla regia. “L’ultima volta che siamo stati bambini” si palesa nel suo essere un lavoro a tratti troppo semplice, che imita il gioiellino di Taika Waititi senza sfiorarne lo spessore dei dialoghi (il copione è un po’ pigro), la messa in scena elegante, la profondità della recitazione. Anche la comicità slapstick e la derisione delle formalità militaresche del nazifascismo non reggono il confronto.
Quell'opera colpiva e faceva ridere non tanto perché i bambini facevano i bambini, ma esattamente per il motivo opposto. Il sorriso e la suggestione in qualche modo poetica erano dati dal tentativo di quei bimbi di essere adulti, Jojo non era mai completamente ingenuo, assumeva le pose e i (dis)valori dei grandi, la sua visione fanciullesca emergeva solo nei dettagli.
Qui invece i tre bimbi protagonisti viaggiano su binari troppo naïf, le situazioni comiche sono spesso risibili, perché raccontano di banali bisticci tra novenni, che possono interessare il giusto. La storia è di per sé un romanzo di sopravvivenza e formazione a pochi chilometri da casa, e dopo l'incipit molto buono nelle strade di Roma si perde in questioni minime, che strappano un sorriso ma nulla più. I tre ragazzini possono citare «la perfida Albione», cantare inni del ventennio, ma il loro agire è totalmente fanciullesco (e alla lunga stucchevole). Waititi trattava Jojo come un adulto, questo lo rendeva interessante e divertente. Qui i piccoli vengono ritratti con un pietismo quasi melenso.
Un lavoro semplice, dunque, che si accontenta di una visione esteriore e un po’ stereotipata (non aiutata dalla recitazione e dalla regia, ma nemmeno dalle musiche, quasi assenti). Dopo alcune buone cartucce sparate subito, si ha l'impressione di seguire dei binari prevedibili e poco fecondi. I temi non brillano per originalità: maschi contro femmine, il ruolo pubblico e la dimensione privata, i paletti della società, l'importanza dei sentimenti.
Più significativa la vicenda degli adulti, un soldato e una suora, che nel loro rincorrere i bimbi affrontano poco a poco tutte le loro rigidità, per consegnarsi infine a una versione più umana e malleabile di loro stessi.
Tutto fa pensare a una disavventura a lieto fine, ma la piega che prende negli ultimi minuti è una di quelle che fanno male al cuore. Troppo doloroso il risvolto per connettersi alle atmosfere soffici del resto del film, e infatti non c'è spazio per un'elaborazione del trauma: resta lì, sospeso e raccapricciante, come solo può essere la scoperta del mondo degli adulti da parte dei bambini.
Non basta dunque mettere insieme due o tre fonti d'ispirazione, serve sicuramente maggior cura nella scrittura, perché sono troppi gli scivoloni verso la comicità più basica. Bisio ha però il coraggio dell'ambizione e, se non altro, ci propone un film diverso dal solito nel panorama italiano.