«Devo molto a Niccolò Paganini È la prima rockstar della storia»
Pianoforte e archi. Giovanni Allevi per il suo Equilibrium tour ha scelto nuovamente di esibirsi insieme all’Orchestra Sinfonica Italiana, ma stavolta ha selezionato tredici professori per proporre un’esperienza sonora ed emozionale di maggior intensità. L’artista è in giro per l’Italia - venti le date previste - per presentare la versione sinfonica del suo ultimo progetto confluito nell’album pubblicato lo scorso ottobre, Equilibrium appunto. In vista del concerto di giovedì primo marzo al Creberg Teatro ha accettato di soddisfare le nostre curiosità.
Lei racconta di essere in bilico tra rock e accademia, e la copertina del disco è lì a dimostrarlo. Ma in Equilibrium, dopo un periodo di isolamento su un arcipelago dell’Atlantico, ha pensato di puntare anche sulla forma classica del concerto, che chiede all’ascoltatore grande impegno. Perché?
«Sicuramente perché la musica che viene a trovarmi è sempre sviluppata in forme dilatate e complesse. La musica che ho amato fin da piccolo era quella che mi accompagnava in lunghi viaggi mentali, forse per via della mia attitudine all'immaginazione. Per questo ormai da anni inseguo l'ideale di una musica che sia classica nelle forme e contemporanea nei contenuti»
Ma poi l’equilibro l’ha trovato davvero?
«Non credo di averlo trovato. Anzi, sono convinto che il meglio di me l’ho sempre dato quando l'ho perso».
C’è qualche rockstar a cui è particolarmente debitore?
«Si, è Niccolò Paganini, la prima rockstar della storia. Col suo magico violino era in grado di stregare le folle, tanto che si pensava avesse fatto un patto col diavolo».
Potremmo chiamarla il Joey Ramone – re del punk americano e icona della controcultura - della musica classica?
«Non conoscevo i Ramones, e incuriosito dalla definizione che mi veniva più volte data sul web, ho scoperto Joey e la sua forza sovversiva. Devo ammettere che sono molto lusingato dal paragone».
In quanto sintesi di successo di due mondi musicali differenti, le è stato attaccato più volte, e lo è tuttora, da chi si erge a difensore della musica «alta». L’ha fatta soffrire questa diffidenza? Come l’ha superata?
«Non sono stato attaccato per aver creato commistioni, cosa che non mi ha mai interessato, ma proprio per aver voluto innovare la tradizione classica mantenendone la purezza. Ora il tempo della critica feroce è passato, la mia perseveranza ha avuto la meglio e la diffidenza sta lasciando spazio a un’inaspettata apertura da parte del mondo accademico, di cui io sono comunque un prodotto. Ho superato il momento di crisi continuando a comporre, portando avanti il mio ideale senza compromessi».
Anche una persona apparentemente gioiosa come lei può avere attacchi di panico. Che diventano però fonte d’ispirazione, come in «Panic».
«Sono una persona umanamente fragile, e al di fuori del pentagramma non sono sicuro di niente. Credo che l'attacco di panico sia l’urlo interiore di chi non accetta l’esistenza inautentica che siamo costretti a vivere nel mondo contemporaneo, fatta di eccesso di social, di giudizi, di modelli preconfezionati e pochissimo silenzio».
Molti brani di Equilibrium sono nati in seguito a un’esperienza individuale forte. Come No Words, scritto dopo il terremoto nel Centro Italia.
«No Words costringe l’orchestra a un grande sforzo interpretativo, durante il live. Mentre il pianoforte simula il movimento sussultorio del terremoto, agli archi è affidato il difficile compito di raccontare la disperazione assieme alla pietà, la potenza della natura e la fragilità umana, la vittoria della solidarietà sulla distruzione. È uno dei momenti più intensi del concerto».
In 25 anni di carriera si sarà tolto molte soddisfazioni. Qual è il sogno che deve ancora realizzare?
«L'accordatore che per vent'anni ha preparato il mio pianoforte, il grande Sergio Griffa, che da poco ci ha lasciati, mi esortava sempre a dedicarmi al nuovo, l'unico modo per uscire dalla crisi. Ecco, mi piacerebbe che nel mondo della musica classica si possa riscoprire il brivido e la gioia di scrivere il nuovo, che l’ebbrezza di fare tutti qualcosa per la prima volta, come degli illuminati cavalieri, venga di nuovo condivisa non solo dai compositori, ma anche dagli interpreti. Sarebbe bello se il presente, con tutte le sue ombre, per una volta fosse considerato migliore del passato».