La presidente Ricuperati

Confindustria frena sull'autostrada Bergamo-Treviglio: «Serve trovare la soluzione migliore»

«Abbiamo bisogno di immigrati con i quali costruire il futuro». E sulla logistica: «Non si possono volere insieme campi verdi, un'economia forte e stipendi alti»

Confindustria frena sull'autostrada Bergamo-Treviglio: «Serve trovare la soluzione migliore»
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di Ettore Ongis

Giovanna Ricuperati dal 21 giugno è il numero uno di Confindustria Bergamo.

Presidente o presidentessa?

«Presidente, “la” presidente, teniamo l’articolo al femminile»

Comincio col dirle quello che non le chiederò. Non le chiederò un commento sul fatto che lei è la prima donna al vertice di Confindustria Bergamo; non le chiederò un commento sul fatto che la sua azienda non appartiene al manifatturiero bensì al mondo dei servizi; non le chiederò niente della sua squadra che, va da sé, è la migliore possibile. Sono tutte novità, ma la principale novità è lei. Da dove viene?

«Da Ponte Nossa, sono orgogliosamente nata a Ponte Nossa».

Alta Val Seriana, lontana da Bergamo città. Ho letto che i suoi nonni erano minatori-contadini, sua mamma un generale di casa con gli occhi neri bellissimi… suo papà Gioioso?

«Uno zio prete aveva lasciato un’eredità all’unico dei fratelli che avrebbe voluto studiare. Mio padre colse l’opportunità e frequentò per quattro anni il liceo classico al Seminario a Bergamo. Quella del prete però non era la sua strada, uscì e si diplomò in ragioneria in due anni. Cominciò subito a lavorare nelle risorse umane alla Samim di Ponte Nossa, gruppo Eni, e ne divenne dirigente».

Quindi lei non è figlia d’arte, figlia di imprenditori.

«No».

A scuola era la prima della classe?

«La seconda. Amavo le materie umanistiche, ma dovevo studiare anche i numeri. L’ho fatto volentieri».

A quindici anni c’è stata quella che ha definito la sua prima azione di marketing: chiedere a un’imprenditrice, Luigina Bernini della Lamiflex, di sponsorizzare la squadra di pallavolo femminile in cui giocava. Obiettivo raggiunto.

«Oggi si provano ventisette sport prima di capire quale fa per te, ma quand’ero ragazza nel paese c’erano solo la pallavolo e la scuola di canto. Le ho praticate entrambe con passione».

Andare a chiedere una sponsorizzazione per una squadra si chiama marketing?

«In realtà si chiama sopravvivenza».

Poi laurea in Economia e Commercio a Bergamo (110 e lode) e una borsa di studio ad Harvard. Al termine degli studi, il bivio: lavorare per una società di consulenza internazionale o aprire una sua società. Ha scelto la seconda, ed è nata Multiconsult. Un bel coraggio.

«Da Ponte Nossa ad Harvard è stato un salto triplo e là ho capito che c’era tanto da fare per far crescere il nostro sistema imprenditoriale, per portare il mondo a Bergamo e Bergamo nel mondo».

Un imprenditore seriano di quelli bravi dice che voi consulenti fate il mestiere più bello del mondo. Incassate parcelle senza mai rischiare niente.

«Non è così, perché la credibilità è un valore più forte del denaro. Quando un mestiere lo fai per trent’anni, e su tutto il territorio nazionale, non può essere solo per la parcella. Anche perché il nostro metodo non è mai stato elaborare un dossier e poi salutare, ma affiancare le imprese e cambiare insieme a loro».

Lei oggi è presidente e amministratore delegato di Multi (ex Multiconsult), guida 40 persone; è presidente di Confindustria e madre di tre figlie. Scusi, ma come fa?

«Dare valore alle persone è sempre stato al centro del mio modo di agire. In Multi sono circondata da collaboratori competenti, capaci e autonomi; in famiglia idem: ho allargato gli affetti e redistribuito le responsabilità. In Confindustria ho messo l’amore che ho per la mia impresa e per tutte le imprese».

Sul sito ufficiale di Multi scrive: «Abbiamo vissuto gli anni dell’off-shoring e della delocalizzazione industriale. Poi il contrordine, il re-shoring...». Mi perdoni, ma a predicare la delocalizzazione era Confindustria e non vi ho mai sentito avvertire gli industriali che spostare le fabbriche non era un’idea intelligente.

«Ci sono cicli economici che non sono governati da chi sta in mezzo, come Confindustria. Gli imprenditori sono molto avanti e sanno cogliere le opportunità. E in ogni caso siamo in un mercato-mondo e con questo dobbiamo fare i conti, per quanto adesso ci si concentri su dimensioni a blocchi più definiti e sicuri, perché abbiamo capito che non abbiamo ancora risolto le tematiche geopolitiche di fondo».

Com’erano gli imprenditori bergamaschi trent’anni anni fa, quando lei è partita?

«Come lo sono ancora: testardi, capaci e determinati, con una dedizione al lavoro senza fine e una progettualità continua».

Ma...?

«Ma poco orientati al mercato. Adesso però si è capito che conta tanto produrre quanto vendere».

Molti figli di imprenditori non vogliono fare il lavoro dei padri…

«E questo mette in campo il tema della managerializzazione, che è fondamentale e non per forza una criticità. Un’impresa deve durare come organismo in sé, non come proprietà assoluta di una famiglia. Fare questo vuol dire rendere forte un sistema industriale, lasciando anche liberi i figli di decidere la loro vera strada».

Il 2021 è stato un anno di grazia per le imprese, la gran parte ha chiuso bilanci da sogno. Ora le aziende viaggiano in ordine sparso con premi e bonus ai dipendenti. È così difficile alzare gli stipendi?

«Non basta un anno eccezionale. La vita di un’impresa abbraccia diverse stagioni, negli ultimi vent’anni, o anche solo negli ultimi dieci, ogni imprenditore ha visto oscillare continuamente i suoi risultati. In questo momento, uno può anche voler condividere una parte del risultato, magari in maniera estemporanea, ma deve comunque mettere fieno in cascina perché non sai mai che cosa ti aspetta ed è difficile sopravvivere quando tutti i fattori della produzione sono diventati una criticità: costi delle materie prime, dell’energia, personale specializzato sono fattori che abbassano la marginalità, che è il cuore di ogni iniziativa imprenditoriale».

Mancano lavoratori praticamente in tutti i settori... le imprese pagano inserzioni sui giornali e perfino i dipendenti che reclutano un amico. E se abolissimo i contratti da stagisti?

«Domenico Bosatelli diceva: “Voglio morire da apprendista”».

Il problema oggi è sopravvivere da apprendista.

«I giovani che escono dalla scuola hanno bisogno di un periodo di formazione, lo chiami come vuole. Imparare un mestiere è un investimento. Sono però d’accordo che il tempo e il coinvolgimento delle persone vada riconosciuto, anche per i ragazzi che devono costruirsi un futuro».

Non ha la sensazione che gli imprenditori stiano cercando persone che non esistono sul nostro territorio? Bergamo ha la disoccupazione più bassa d’Italia. Abbiamo bisogno di immigrati?

«Sì. E ci metta pure la demografia: abbiamo bisogno di persone con le quali costruire il futuro, altrimenti non ci sarà sviluppo». (...)

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