Scaglia (Confindustria Bergamo) ottimista sulla ripresa: «In estate ci sarà la svolta»
«Vivo ancora sotto scorta, ma tutti hanno smentito nostre pressioni contro la zona rossa a Nembro e Alzano. I numeri delle imprese sono buoni, non arriveranno tanti licenziamenti»
di Andrea Rossetti
Prima c’è stata la smentita dell’allora premier Giuseppe Conte, poi quella del governatore Attilio Fontana, infine le parole del sindaco di Bergamo Giorgio Gori e del primo cittadino di Nembro, Claudio Cancelli. Ora anche Maria Cristina Rota, procuratore aggiunto di Bergamo che si occupa dell’inchiesta sull’emergenza Covid ha messo un punto, al riguardo: in un’intervista a Famiglia Cristiana, il magistrato ha infatti detto chiaramente che non risultano esserci state pressioni da parte di Confindustria Bergamo per evitare l’imposizione della zona rossa su Alzano e Nembro.
Eppure, a distanza di un anno, l’opinione pubblica non s’è smossa di un millimetro. E gli industriali bergamaschi continuano a essere indicati come alcuni tra i principali responsabili delle mancate chiusure, e di conseguenza della tragedia che la nostra terra ha vissuto durante la prima ondata del coronavirus. La “prova” sarebbe il video che, alla fine del febbraio 2020, Confindustria Bergamo pubblicò sui propri canali social, intitolato Bergamo is running!. Un messaggio di ottimismo (rivelatosi poi infondato) rivolto soprattutto ai Paesi esteri e teso a trasmettere tranquillità. «Nessuno si immaginava ciò che sarebbe successo...», commenta oggi Stefano Scaglia, numero uno dell’associazione degli industriali bergamaschi. «A posteriori le cose sono andate diversamente, ma mi chiedo cosa avremmo potuto considerare… Non avevamo informazioni che potessero indurci a non fare quel video».
Fu un errore di sottovalutazione?
«Non abbiamo sottovalutato un rischio. Era semplicemente inimmaginabile quanto avvenuto dopo. La lezione è che non bisogna dare nulla per scontato».
Fu quindi ignoranza.
«Sì, non avevamo informazioni che potessero farci pensare al peggio».
Lei è stato minacciato di morte a causa di tutto questo. Vive ancora sotto scorta?
«Sì».
Qual è il suo stato d’animo?
«È pesante e preoccupante. Per se stessi, ma soprattutto per le persone che ti vogliono bene. Sto pagando accuse in cui non mi riconosco. Quando la pandemia è scoppiata, noi tutti ci siamo messi al servizio della comunità. C’è stato tanto dolore, nell’ultimo anno, ma anche tanto lavoro, tanta fatica. Alla fine, non ho rimpianti».
Nonostante le smentite, la convinzione comune è che vi siate opposti alla zona rossa. Pensa ci sia una sorta di pregiudizio nei vostri confronti?
«Non so se possa essere definito così... Sicuramente fa molto più notizia l’indagine, l’accusa, ma poi quando c’è l’assoluzione, o comunque si prova che non c’era niente, non lo si dice. Questo mi lascia un po’ amareggiato».
C’è quindi una colpa anche nostra, dei media?
«I media hanno una responsabilità importante nella società. Hanno la forza, il peso, per influenzare l’opinione pubblica. Ma penso che il discorso, in questo caso, sia più ampio».
Cioè?
«È evidente che, anche in una provincia come la nostra, da sempre molto favorevole all’industria, al lavoro, all’impresa, negli ultimi tempi sia cresciuto un atteggiamento anti-industriale. Fare impresa porta enormi benefici, ma richiede anche sforzi comunitari, un impegno comune. Forse oggi, a benessere raggiunto, si danno per scontate troppe cose. Si pensa che il livello ottenuto sia per sempre. Non si capisce che invece bisogna lottare ogni giorno per mantenere ciò che si ha e che se si smette di lottare, di lavorare, si fanno passi indietro».
Sta dicendo che Bergamo pensa che si potrebbe fare a meno dell’industria, per certi versi?
«Diciamo che forse si pensa che si possa fare a meno dei “costi” dell’impresa, senza voler però rinunciare ai “benefici”. Ma il benessere bisogna produrlo, non piove dal cielo. Guardi i social, sono l’emblema di tutto questo. Un luogo dove è facile alimentare il male e difficilissimo alimentare il bene».
In questo quadro quali sono le responsabilità delle Istituzioni?
«Non starei qui a fare la suddivisione delle colpe e degli alibi. Di certo, a livello istituzionale, c’è stata molta, troppa confusione».
Nella confusione generale, però, le aziende sono state forse le realtà meno colpite. Praticamente non hanno mai chiuso.
«È vero che il manifatturiero è andato avanti, però l’industria è fatta di persone. Guardi soltanto negli ultimi giorni il caos causato dalla chiusura delle scuole imposta da Regione da un giorno all’altro. Una decisione del genere ha per forza ricadute anche sul mondo del lavoro».
Lei ha anche aziende in Inghilterra, Francia, Germania. Sono stati più bravi di noi all’estero?
«È difficile dirlo. La certezza è che là non hanno mai chiuso davvero. Un lockdown come quello vissuto da noi l’anno scorso, all’estero non è mai stato imposto. Poi, nell’affrontare la pandemia, ci sono stati stili diversi. Le somme non si possono tirare adesso. Sicuramente la mancanza di certezze che abbiamo vissuto in Italia ha dato più problemi».
Lei ha anche detto che in Bergamasca, però, la ripresa c’è. Tutto sommato, quindi, è andata bene?
«Tutto è relativo. Se guardiamo i dati attuali con gli occhi di un anno fa, allora sì, è andata bene, perché allora le prospettive erano davvero cupe. Se invece li guardiamo rispetto alle performance di altri Paesi, allora è andata meno bene. La cosa positiva è che ci siamo rialzati in fretta: dopo l’estate la congiuntura industriale è ripartita molto bene, forte. I risultati del 2020 sono una media tra il disastro della prima metà e la ripartenza degli ultimi mesi. Adesso sarebbe fondamentale che ripartissero anche i consumi...».