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L'Atalanta s'è riscoperta principessa

L'Atalanta s'è riscoperta principessa
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L’attimo fuggente, l’attimo decisivo, che segna la vita è questo: ce lo abbiamo qui, proprio sotto di noi, in questo immenso stadio di San Siro. È qui, in questo pallone calciato ora dal dischetto da Gabriel Jesus. Rincorsa corta, sicura, tiro di destro, buona velocità, molto angolato… Succede nel giro di mezzo secondo. Lo stadio fischia, ma il cuore di ogni tifoso respira la grande paura che porta alla rassegnazione. Tutti fischiamo, ma nel cuore abbiamo la sensazione che finisca in goleada, che questo sia il preludio al crollo. Qualcuno dietro di me ha detto: «La fenés sèt a sero». Finisce sette a zero. Ma ora la palla corre sul prato verde bagnato, angolatissima, Gollini ha intuito, si è lanciato e lo stadio fischia, eppure non respira, non respira più per un attimo, per la frazione di tempo più lunga di tutta questa giornata di pioggia e freddo. Le dita di Gollini si allungano, come il braccio, si protendono, la palla corre, ma la traiettoria si allarga troppo, troppo…

Eccolo qui, qui sotto di noi, il pallone che sfiora il palo ed esce sul fondo. Jesus ha sbagliato! Lo stadio esplode, tutti urliamo, e in questo grido che scuote il cemento armato c’è tutta la paura che se ne va, la paura che ha preso tutti quanti, a cominciare dalla squadra, che ha giocato i primi quaranta minuti di questa partita come se non fosse più se stessa, come se non ci credesse più. Come se non ci credesse che lei è la grande Atalanta del pressing e dell’aggressività, della lotta strenua su ogni pallone e delle improvvise illuminazioni di Gomez, dei dribbling impossibili di Ilicic, delle scavallate furiose dell’impreciso e bravo Hateboer. Come se non ci credesse che lei è in Champions perché se lo merita. Come se pensasse di essere Cenerentola. Dimenticando che è vero, è così, ma che Cenerentola è proprio la vera principessa.

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E in questo attimo fuggente, questo preciso istante in cui il pallone fa la barba al palo, come dicevano i vecchi cronisti, la partita cambia, nel profondo della testa e del cuore degli undici nerazzurri in campo e dei 35 mila in tribuna, la speranza si riaccende. E l’Atalanta diventa furiosa, gli ultimi sei minuti del primo tempo sono un’altra musica: pressa, aggredisce, corre.

Intervallo. Sugli spalti si discute, via WhatsApp si comunica con gli amici rimasti a casa. Il messaggino di Ettore dice che adesso ci travolgono. Io rispondo che non sarà così, che negli ultimi cinque minuti è cambiato tutto, che è una questione di testa all’ottanta per cento. Lui non ci crede. Io gli scrivo che il City è un mostro soltanto se noi gli consentiamo di esserlo. Come abbiamo fatto nei primi quaranta minuti. Francesco, qui vicino a me, mi dà credito, dice: «Speriamo, zio». Speriamo, certo. Crediamoci. Sai una cosa, Francesco? «Se credi di potere essere felice, se ci credi nel profondo, allora sarai felice».

I giocatori scendono in campo, come sempre Gasperini nell’intervallo non cambia formazione. Quella che è cambiata è la musica. L’Atalanta ora è davvero scesa in campo. E i mostri non sono più mostri. Noi lottiamo, loro non ci stanno, non vogliono perdere e nemmeno pareggiare, mai! Ma questa, signori, è l’Atalanta alla sua prima apparizione in Champions. Un po’ in ritardo, è vero, ma finalmente è arrivata. Questo pomeriggio sono arrivato a Milano in auto, sono partito presto per il timore di infilarmi in code infinite. Sono arrivato a piazzale Lotto alle cinque, allora sono andato alla Scala e al Duomo e mi sono bevuto le meraviglie del XIV secolo. Poi, entrando nello stadio di San Siro, davanti a me un uomo e una donna parlavano francese. «Da dove venite?», ho chiesto, ma non hanno capito. L’ho detto in inglese. «From Paris», mi hanno risposto. «Eravamo qui per lavoro e allora abbiamo pensato di venire. Non è strano, questa è la Scala del calcio». Chissà che cosa hanno provato loro, parigini, davanti a questa partita, a questa Atalanta.

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Il secondo tempo non lo racconto, lo abbiamo visto tutti. Abbiamo visto che cosa significhi credere nelle cose. Da pecore si diventa leoni. E i nostri undici leoni hanno rischiato di vincere la partita, di battere il Manchester City di Pep Guardiola, la squadra più forte del mondo. Che ha lottato su ogni pallone, che non ha regalato niente, niente. Quando è partito il traversone di Papu Gomez e Mario Pasalic si è avventato sulla palla con la sicurezza del falco che ghermisce il coniglio, una nuova emozione ha scosso le torri di San Siro: abbiamo trafitto il drago con la nostra lancia. Non soltanto possiamo lottare, possiamo vincere! E, per poco, non vincevamo davvero. Ed è finita come sappiamo, con il City a fare il giochino dei falli laterali per perder tempo, con la paura matta di perdere la partita.

Ce ne siamo andati così, nella notte milanese, verso le nostre auto, verso i pullman, le luci di San Siro ancora sfolgoranti a illuminare le pozzanghere. Gran coda verso l’autostrada, poi traffico intenso ma scorrevole. Andando a casa, sono passato accanto al nostro stadio silenzioso, alla nostra Curva e ho pensato che un giorno il Manchester City lo ospiteremo qui, nel nostro vecchio Brumana, ribattezzato Atleti Azzurri d’Italia e infine Gewiss Stadium, alle falde della Maresana.

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