intervista

Ecco perché non dovreste perdervi il concerto di Anna Castiglia al Filagosto Festival

La cantautrice catanese classe ’98 aprirà il concerto di Vasco Brondi, figura di spicco della musica indipendente italiana degli anni 2010

Ecco perché non dovreste perdervi il concerto di Anna Castiglia al Filagosto Festival
Pubblicato:
Aggiornato:

di Matteo Rizzi

Fresca di vittoria di Musicultura, una delle più importanti kermesse rivolte alla musica indipendente italiana, e dell’apertura del concerto di Fabi, Silvestri e Gazzè al Circo Massimo di Roma in occasione dei dieci anni de Il Padrone della Festa, unico album pubblicato dal trio, il tour estivo di Anna Castiglia fa tappa questa sera (30 luglio) a Bergamo, più precisamente a Filago: l’appuntamento è con il Filagosto, dove la cantautrice catanese classe ’98 aprirà il concerto di Vasco Brondi, figura di spicco della musica indipendente italiana degli anni 2010, noto ai tempi con il moniker Le Luci Della Centrale Elettrica.

Creatività a trecentosessanta gradi e freschezza fuori da ogni schema: Anna Castiglia è indubbiamente uno dei progetti più interessanti della nuova scena emergente italiana, anche per quanto riguarda la proposta live. Nell’ultimo anno ha avuto modo di farsi notare dai fan di Max Gazzè, di cui ha aperto il tour nei teatri, e ha inanellato una serie di uscite discografiche, tra cui Whitman in collaborazione con Ghemon, che hanno consolidato un sound interessante e maturo, mettendo in luce una robusta personalità pop e un gusto a tratti latineggiante ereditato dalla peculiare formazione musicale dell’artista. Abbiamo fatto due chiacchiere con lei in occasione del suo arrivo a Bergamo. 

Prima le cose più urgenti: descrivici questo live in poche parole. 

«Il live che sto portando in questo tour intanto è composto per buona parte da brani inediti, che anticipano il disco che uscirà alla fine dell’estate. Per quanto riguarda la formazione stiamo riproponendo la stessa con cui ho fatto il tour nei teatri gli scorsi mesi: ci sono io con voce e chitarra, poi ci sono tastiere e basso synth, tromba, flicorno, batteria e percussioni. É una formazione un po’ insolita che però mi sembrava la più adatta a restituire anche dal vivo il gusto latineggiante che sta emergendo nei pezzi che sto componendo in questo periodo». 

Un gusto latineggiante che è evidente soprattutto nel tuo ultimo singolo U Mari: il disco che uscirà a fine estate andrà in questa direzione o dobbiamo aspettarci altro? E da dove arriva questa tua fascinazione per la musica latina? 

«U mari è un misto tra samba e pop, ha anche qualcosa a che vedere con il mondo disco e quello dance. Però sì, la matrice è quel gusto un po’ brasiliano che riprenderò in altri pezzi del disco, anche se non in tutti. É un mondo che mi piace e a cui mi sono avvicinata quando ho iniziato a studiare chitarra classica da bambina, perché il repertorio per chi studia chitarra classica è principalmente spagnolo o brasiliano, e anche perché avevo fatto una master class molto bella che ricordo ancora con uno specialista di tango e milonga. Tra l’altro ho avuto a lungo contatti con una baby sitter brasiliana quando ero bambina, che mi ha fatto scoprire anche le declinazioni più pop della musica brasiliana».

Anna Castiglia (al centro) al momento della vittoria di Musicultura

A che punto la tua formazione classica ha incrociato il mondo del pop, portandoti sulle sonorità e sulle ricerche che porti avanti oggi? 

«Diciamo che la forma canzone c’è sempre stata: a dodici anni però ho avuto una crisi più profonda, in cui non volevo più studiare chitarra e in generale non avevo più voglia di eseguire spartiti, mentre mi interessavano sempre di più la scrittura e la composizione. Per un momento ho proprio messo da parte la chitarra, non la volevo più suonare. Poi pian piano ho iniziato a riprenderla, a fare le prime cover perché volevo imparare a cantare accompagnandomi con la chitarra. Però fin da quando ero piccola e studiavo classica quando ero in camera mia anziché studiare le sonate scrivevo canzoni per le mie amiche».

A proposito di live, sei reduce dal tuo concerto ad oggi più importante in termini di location e presenze, ovvero l’apertura del live al Circo Massimo di Fabi, Silvestri e Gazzè. Che esperienza è stata? 

«Sì, ero già stata al Circo Massimo per il Primo Maggio, ma questa volta era diverso: era un set tutto mio in apertura a un concerto in cui tre artisti che stimo molto hanno riproposto uno dei dischi più importanti per la mia formazione: Il Padrone della Festa è stato il primo disco che io abbia mai ascoltato per intero. La cornice poi era stupenda, ed è stato importante condividere il palco con altre due artiste come Daniela Pes e Emma Nolde, è stato fondamentale per la mia crescita e in qualche modo la serata è servita anche a offrire spunti di riflessione sulla scarsa inclusività dell’universo musicale italiano, perché eravamo tre cantautrici donne in apertura, cosa normalmente molto rara». 

Sei cresciuta a Catania e ti sei formata artisticamente a Torino: da un capo all’altro dell’Italia. Che differenze hai notato nella vita musicale di queste due città, e che idea hai dell’Italia musicale?

«Intanto ho notato che ogni regione ha un genere prediletto che risente molto degli artisti che si sono formati in quelle zone. Ad esempio a Torino si sente molto la presenza storica dei Subsonica. In generale Torino è una città molto fertile dal punto di vista musicale, anche se la rete è un po’ chiusa ed è difficile entrarci. Però io a diciott’anni sono arrivata da Catania con l’idea che per fare un concerto con musica scritta da te dovessi essere famosa, e ho scoperto tutto il mondo della musica emergente, della scena cantautorale, degli open mic e via dicendo, e mi sono resa conto lì per la prima volta che potevo provare a fare della musica il mio lavoro. Per quanto riguarda Catania, appunto, non ci vivo da molti anni, ma quando ero lì era più difficile proporre la tua musica, e i miei ricordi “musicali” legati alla città sono tutti inerenti alla gavetta che ho fatto suonando cover per i turisti o per i militari».

Hai molto a cuore anche tematiche legate al femminismo e all’inclusività, soprattutto per quanto riguarda il settore della musica. A che punto siamo, secondo te? 

«Allora, premesso che io voglio fare innanzitutto musica, e non attivismo, credo però che la musica abbia un potere e chiunque abbia una visibilità anche piccola abbia delle responsabilità. Non voglio insegnare niente, ma esprimermi e portare messaggi positivi verso le categorie discriminate, anche attraverso azioni quotidiane che possono aiutare a trasmettere questi messaggi». 

Ad esempio? 

«Ad esempio a Torino ho fondato il collettivo Canta Fino a Dieci: siamo cinque cantautrici tutte di città diverse e ognuna con il proprio progetto. Abbiamo un’attività social su Instagram, con alcune attività, ma soprattutto organizziamo concerti in cui ci presentiamo tutte e cinque sul palco e ognuna canta i suoi pezzi e passa la chitarra all’artista che ha di fianco. L’idea è quella di normalizzare la presenza di più donne sul palco in un contesto in cui una band totalmente maschile è una cosa ovvia, mentre una band con più presenze femminili fa ancora strano. Poi abbiamo altri gruppi con cui ci occupiamo di monitorare ad esempio la comunicazione dei festival per segnalare quando i messaggi che vengono trasmessi secondo noi sono poco inclusivi, e vari progetti in cui forniamo le nostre mappature per sostenere la formazione di line up inclusive, non solo per quanto riguarda le donne, ma anche per quanto riguarda le altre categorie discriminate, nei festival o nel mondo dei live in generale».

L’ultima domanda inevitabile: come è stato vincere Musicultura? 

«Innanzitutto è stata un’esperienza bellissima, perché dura un anno e ci sono tante fasi tutte in presenza, quindi si conoscono tante persone che sono lì per fare quello che fai tu. La fase finale poi è ancora più bella, perché si va cinque giorni a Macerata e si fanno tantissime attività interessanti. Vincere ovviamente è stato molto bello, e sono molto orgogliosa anche del premio per il miglior testo, perché il brano che ho presentato (si intitola Ghali, ndr) è quasi più testo che musica e ci tengo molto a quello che ho scritto. In generale è stata una scarica di autostima e di felicità, nonostante la sindrome dell’impostore che mi suggerisce sempre che in fondo le cose belle non me le merito».

Seguici sui nostri canali