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Uomini soli, rovinati dal divorzio

Uomini soli, rovinati dal divorzio
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Foto di Mario Rota

 

Che cosa succede quando finisce un amore? Se lo chiedeva Riccardo Cocciante in una celebre canzone del 1974. E ce lo siamo chiesti anche noi. O meglio: ci siamo chiesti cosa succede ai papà bergamaschi quando finisce l’amore con le proprie mogli e compagne e si ritrovano al di fuori del proprio contesto familiare. Un piccolo esercito eterogeneo e invisibile sparso in tutta la nostra Provincia, dalle alte valli alla Bassa. Sono dipendenti, professionisti e imprenditori di qualunque formazione culturale, perché l’amore che finisce non guarda in faccia a nessuno. E, tristemente, i ranghi sono in continua crescita.

«È facile dire: “Lei deve uscire di casa”, come ha fatto il giudice. “L’1 maggio deve uscire di casa”. “E dove vado? ”. Gli ho risposto così al giudice: “Dove vado?”». L’uscita di casa dell’uomo divorziato o separato, il momento di cesura, il “rito” di passaggio che segna la fine vera e propria dell’unione con la propria donna è l’inizio di una vita nuova. Diversa. Per la maggior parte di loro è l’inizio di un percorso fatto di tante difficoltà, di tante solitudini, di perdita di punti di riferimento. Parte da qui questo viaggio nella provincia bergamasca alla ricerca dei papà divorziati; parte dalla Caritas, che è tra le principali realtà in prima linea anche su questo fronte sociale, con il Patronato San Vincenzo in città e diverse altre realtà sul territorio.

 

Simone Carminati del Patronato San Vincenzo

 

Secondo il Rapporto Caritas 2014 False partenze, ad oggi la pubblicazione statistica più autorevole su povertà ed esclusione sociale in Italia, i padri separati sono circa quattro milioni e, di questi, ottocentomila si trovano sotto la soglia di povertà o comunque sul lastrico. «In realtà i numeri andrebbero letti ed interpretati correttamente», precisa Simone Carminati del Patronato. «Tra questi dati, infatti, oltre ai padri, separati o divorziati che siano, ci sono anche tutti quegli ex mariti e compagni che padri non sono. Inoltre, poiché i dati forniti da Caritas o dall’Istat si riferiscono sempre all’anno precedente, in realtà la situazione è in costante divenire e io sono convinto - prosegue Carminati - che oggi siano molti di più».

Un vero e proprio esercito di uomini che all’improvviso perde la propria autonomia economica e si ritrova a lottare per arrivare alla fine del mese. E la cosa può capitare a tutti: dipendenti, dirigenti, professionisti e imprenditori. «Paradossalmente - raccontava M., incontrato alcuni anni fa in una piccola comunità di padri divorziati insediatasi abusivamente in un bosco a pochi chilometri dal centro di Bergamo - quelli che resistono meglio sono i dipendenti che hanno uno stipendio fisso. Io e P., che siamo partite Iva, con il lavoro a singhiozzo e i clienti che pagano quando cavolo vogliono non sappiamo dove sbattere la testa. Ma qui mettiamo tutto in comune e tiriamo avanti così».

 

 

Quella degli uomini separati e divorziati, nella fattispecie con figli a carico, è una categoria annoverabile tra le «nuove povertà», come le definisce Carminati, generate dalla società contemporanea negli ultimi dieci anni circa: è costituita da persone che, almeno sulla carta, hanno un lavoro e una posizione sociale, hanno di che mangiare e un luogo dove dormire. Non è più la povertà di chi si è rovinato economicamente (e non solo) con droga, alcool, gioco d’azzardo, ma è una condizione più subdola perché «generata da un indirizzo legislativo che prevede in maniera quasi unidirezionale che i minori a carico debbano stare con la madre, con tutto quello che consegue dal punto di vista patrimoniale ed economico».

«I veri poveri siamo noi - dice A., padre di due bambine che vive con mantenimento, tra gli extra che gli devi dare, tra il dentista, tra il mutuo da pagare, tra la macchina, tra il bollo e così via, a fine mese non ci arrivi. Non ci arrivi!». «Sono arrivato ad andare alla Caritas perché a fine mese non sapevo dove trovare i soldi per mangiare» rimarca L., papà di due gemelle e un bambino di poco più di un anno. «Sono stato bene, sono bravi. E pazienti. Ma è veramente mortificante». M., invece, ha un bambino che va pazzo per il calcio: «Con uno stipendio netto di 1.200 euro è stato stabilito un mantenimento per i figli di 650 euro. Se poi depenni i duecento euro che pago per l’alloggio provvisorio, il conto di quello che mi rimane è presto fatto. Mi sento inutile e depresso, mi sono ammazzato di straordinari al lavoro e non ho un posto mio dove portare mio figlio. Ho venduto anche la moto e gli sci, non ho più voglia di fare un cavolo, non vado neanche più allo stadio. Ti confesso che un paio di volte sono andato sul ponte (di Calusco, ndr) con l’intenzione di buttarmi».

 

 

Tutti questi uomini sono accomunati dalla voglia di essere papà a tutti i costi: è una necessità primaria, come l’aria, l’acqua, il cibo e che vale molto più delle passioni e degli hobby che vengono mollati, più delle relazioni sociali superate dal senso di spaesamento di non avere più punti di riferimento affettivi. « L’aberrazione di questa condizione - spiega Carminati -, che i media, sotto la spinta dei messaggi che provengono da Oltreoceano, ti presentano come l’opportunità di un nuovo inizio, di una seconda vita piena di possibilità, è che cela una realtà fatta troppe volte di perdita dell’autonomia economica, di perdita di una serie di punti di riferimento quali la propria casa, l’affetto di una compagna, l’allontanamento dai figli e talvolta dei figli, il venir meno di molte relazioni interpersonali sia a causa della separazione sia a causa di una sorta di autoisolamento in cui l’uomo si chiude. Finché il lavoro funziona uno si butta su quello per non pensare e per cercare quella dignità che sente perduta e un riscatto, sia nei confronti dei figli che dell'ex moglie o compagna. Ma quando sul lavoro cominciano a spostarti, a non pagare, a metterti in cassa integrazione, allora cominciano ad andare sempre più giù».

 

 

A questo punto, spesso, subentrano alcolismo e gioco d’azzardo. «Tanti non hanno il coraggio di chiedere aiuto o non sanno dove chiederlo, ed è ancora peggio. Pensa che quasi tutti non parlano neppure di ex moglie, dicono “mia moglie, la mia compagna”. Continuano a restare con la testa ancorati alla famiglia. Noi, qui al Patronato, ci siamo. Ora abbiamo 65 ospiti ai quali si aggiungono i dieci di un’abitazione a Seriate. E vogliamo creare un luogo con diverse figure specializzate a Osio Sotto, nella casa Natale di don Bepo Vavassori, il fondatore del Patronato. Qui, oltre ad un tetto e alla mensa, hanno la possibilità di avere un posto dignitoso, educatori e, cosa fondamentale, gente con cui confrontarsi, altri ospiti ma anche soggetti che vengono da realtà differenti. E, soprattutto, un luogo da cui ripartire per cercare una propria sistemazione autonoma e una propria nuova dimensione». A volte è questo che succede, quando finisce un amore.

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