La sera magica di Berlino/3

Non potevo tifare Juventus ma ho tifato per gli juventini

Non potevo tifare Juventus ma ho tifato per gli juventini
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So bene che agli juventini che leggeranno questo pezzo o che ascolteranno le mie parole importerà ben poco. Ma ci tengo a dire che li capisco. Nessuna presa in giro, nessuna compassione, nessuna pietà. Semmai pietas: rispetto e vicinanza. Sì, perché sebbene una squadra non si possa scegliere di tifarla (son della fazione di chi ritiene sia la squadra a scegliere i propri tifosi e non viceversa. Un concetto troppe volte snobbato con occhi al cielo e sbuffate dai profani), si può comunque sempre scegliere di essere umani. Nella finale di Berlino non ho tifato Juve, mi sarebbe stato impossibile farlo, ma ho tifato per i sorrisi e le lacrime di gioia dei juventini che conosco e che mi sono cari. Perché quell'emozione ho avuto la fortuna di poterla provare e auguro a chiunque di viverla almeno una volta nella vita. Per lo stesso identico motivo, la loro sofferenza l'ho, in qualche modo, fatta anche mia. Gli sguardi mesti, l'amarezza, la delusione bianconera, almeno per un istante, hanno attraversato anche me. E come il sottoscritto, anche tanti altri. Questa non è pietà, è pietas, che è tutt'altra cosa.

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Nei giorni scorsi, prima della finale, veniva spesso usato un concetto sui media italiani: non hanno nulla da perdere. I giocatori della Juventus non hanno nulla da perdere. Son più deboli, son arrivati lì a sorpresa, che vogliono di più dalla vita? Se anche perdono è normale. Quante idiozie. Chi arriva in una finale ha la vita da perdere. Ha da perdere i sogni del bambino, i desideri del professionista, le emozioni dell'uomo. Ha sulle spalle la responsabilità di milioni di cuori a cui la frase "non avete nulla da perdere" fa partire un istintivo vaffa. Perché se arrivi in finale hai tutto da perdere, inutile negarlo. E proprio per questo le finali fanno paura. Ditelo a Buffon che non aveva niente da perdere. O a Pirlo. O, ancora, a Tevez. E a Marchisio? A Bonucci? A Barzagli? Chi glielo dice di non preoccuparsi che tanto non avevano niente da perdere. Loro, giustamente, ci credevano. E, a fine partita, non ho potuto far altro che sentirmi vicino a loro mentre i volti gli si rigavano di lacrime. Perché ci avevano creduto ed era giustissimo che lo facessero.

Ditelo a quel signore, classe '50, che c'era all'Haysel, all'Olimpico, ma anche a Belgrado, ad Atene, a Monaco, ad Amsterdam, a Manchester e ora pure a Berlino. Ditelo a lui che non aveva niente da perdere. Ditelo alle nuove generazioni di diciottenni e ventenni bianconeri, che da quando hanno coscienza del mondo hanno visto il pallone europeo farsi sempre beffa di loro. Ditelo a quella madre, che mentre scrutava annoiata la pagina dei morti de L'Eco, buttava un occhio preoccupato alla tv e che quando ha visto Suarez esultare ha sbuffato e ha pensato dispiaciuta alle lacrime dei suoi figli e di suo marito. Non ho tifato Juve, ma ho tifato tutti loro. Ho tifato così tanto tutti loro che, a fine partita, vedendo Pirlo piangere disperato avrei voluto abbracciarlo e consolarlo. No, dico, Pirlo: l'uomo il cui volto è meno empatico di un tetra pack di Tavernello. Avrei voluto abbracciarlo.

 

 

Del resto una delle cose più belle del calcio ho sempre pensato che si nascondesse proprio nel fatto di sentirsi parte di qualcosa. Quando si tifa ci si rende improvvisamente conto di non essere soli. Quando partono i caroselli o i pianti collettivi, è come se tutti conoscessimo tutti. È una specie di fantastica magia, un equilibrio, perché poi, proprio in quella totalità indistinta, in quella massa di un unico colore (bicolore a dire il vero), in realtà proprio lì possiamo ritrovare noi stessi. Perché sebbene si gioisca o si soffra tutti insieme, alla fine ognuno lo fa in modo diverso. Per questo ho sempre amato osservare e, quando possibile, immergermi nelle folle pallonare: è come entrare in un mondo a parte, dove schemi sociali e paletti culturali crollano, lasciando spazio all'essenza delle persone. Niente meglio delle parole di quel meraviglioso animale mitologico del pallone che fu Sócrates, mezzo fuoriclasse e mezzo dottore, mezzo funambolo e mezzo filosofo, descrive ciò che intendo: «Perché poi, in fin dei conti, è questo, solo questo: il vibrare dei corpi, l'attimo di meraviglia - nel momento in cui passa e sparisce - che ci tiene vicini, io sul campo, voi sugli spalti». È il vibrare dei corpi, l'attimo di meraviglia, ciò che ha tenuto vicini loro sul campo, voi sugli spalti e noi, semplici spettatori, nel mondo.

Ora è tutto finito. Per 96 minuti e svariate settimane si è sperato. Sai, "la palla è rotonda", "nelle finali non ci sono favoriti", "i meno forti ribaltano sempre i pronostici". La verità, purtroppo, è che il calcio è come la vita: alla fine, nel 90 percento dei casi, vince sempre il più forte. E il più forte, a Berlino, vestiva blaugrana e parlava catalano. È vero, il calcio è bello perché imprevedibile, ma non sempre, anche se ci piace pensare il contrario. La vera differenza tra calcio e vita, però, è che il primo offre sempre e comunque una seconda possibilità. E poi una terza, una quarta, una quinta. Magari ci sarà da aspettare, ma l'occasione arriverà. E allora bisognerà giocarsela, crederci. Io non ho tifato Juve, ma sì, lo ammetto: ho tifato perché potesse arrivasse la vostra ennesima chance, ho tifato perché poteste gioire. E nel mio piccolo, innegabile e nascosto animo sportivo, anche io con voi.

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