Uno studio americano

Bua, ninna, pappa e tutte le altre Il baby talk li fa crescere intelligenti

Bua, ninna, pappa e tutte le altre Il baby talk li fa crescere intelligenti
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Il dibattito è da sempre stato aperto. Con i bambini molto piccoli, nella fase cioè di apprendimento linguistico, meglio utilizzare il maternese o baby talk che dir si voglia, composto di suoni, modulazioni della voce, parole espressamente coniate, o piuttosto è più indicato rivolgersi loro con un linguaggio da piccoli adulti? Un recente studio della Rutgers University, nel New Jersey, Stati Uniti, pubblicato sulle pagine di Psychological Review non lascerebbe dubbi: meglio il linguaggio da bambini, quello universalmente utilizzato dalle mamme. Le quali dimostrano, ancora una volta e non solo scientificamente, che seguendo ciò che detta loro il cuore non sbagliano mai.

 

 

Il buffo linguaggio per i bebè. Senti chi parla (e come parla). Chi non si è fatto quattro risate guardando il film del 1989, intrepretato da John Travolta e Kristie Alley, che aveva come protagonista un bimbetto in culla tutto pepe e vispissimo, doppiato da Paolo Villaggio, che si faceva beffe degli adulti, arrivando quasi a dubitare della loro sanità mentale, per lo strano gergo vocale o sillabico con cui comunicavano con lui? Sull’argomento ci sarebbe da discutere a lungo, perché sulla relazione linguistica adulti-neonati c’è chi prendere le parti dei bambini, asserendo che quello sciocco scimmiottare è controproducente per lo sviluppo mentale e verbale e chi, di rimando, ritiene che per diventare grande ci sia sempre tempo. E dunque viva la fanciullezza e il suo linguaggio! Tra i due contendenti, oggi vincerebbero i secondi.

Uno studio dice che fa bene. Un recentissimo studio americano sosterrebbe infatti che, per facilitare l’apprendimento, la memorizzazione e l’acquisizione di nuovi concetti nei piccoli in fase di crescita, non c’è niente di meglio della voce della mamma. Ma soprattutto del suo linguaggio affettuoso, fatto di paroline brevi, appositamente coniate per un linguaggio baby, come ad esempio i termini bua, ninna, pappa, ma soprattutto le tonalità carezzevoli fatte di suoni alti e bassi, di enfasi su alcune parole rispetto ad altre: caratteristiche e modalità che avvantaggerebbero il bambino nella sua capacità espressiva e linguistica. Potenziando in buona sostanza l’apprendimento.

 

 

Le attestazioni sono scientifiche. Non si tratterebbe soltanto di deduzioni emozionali o dettate dall’empatia, ma a parlare sarebbero le destrutturazioni del linguaggio stesso, operate da un gruppo di ricercatori americani. I quali hanno dapprima scomposto i suoni verbali presenti in un discorso tra adulti, costruendo poi su queste informazioni un modello matematico, espressione del miglior modo per insegnare una lingua a un bambino. Ovvero uno schema di linguaggio basico che fosse facilmente comprensibile e intuibile, anche per chi di conoscenze linguistiche e di sintassi è tabula rasa, confrontandolo poi con forme di discorso utilizzate nel rapporto adulto-adulto e adulto-bambino. Il risultato? Quello che, fra i due, meglio rispettava i canoni del modello matematico, più favorevole cioè ad essere appreso e ricordato, era proprio il baby-talk, il linguaggio adottato dalla mamma per rivolgersi amorevolmente al suo bambino.

Un fenomeno semplice da capire. La prima forma di comunicazione con il bambino, spiegano i ricercatori, non ha bisogno di grossi paroloni o di forti argomentazioni, ma piuttosto di calore umano, di trasmissione empatica, di moine. Le quali hanno anche il potere di legare all’emozione provata, anche l’acquisizione del concetto veicolato alla parola pronunciata. Due aspetti tipici del baby-talk, il quale si compone proprio di una parte emotivo-affettiva, che protegge e fortifica la relazione mamma-bambino, dando senso di sicurezza ai piccoli e di una componente linguistica, la parola già nota consolidata per l’adulto e nuova per il bambini. E il cui efficace risultato, almeno in termini di apprendimento, parrebbe garantito.

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