Cantare insieme fa stare bene
La scienza ha sempre avuto un problema: poter affermare di aver detto lei anche cose che si sanno da secoli senza che lei - la scienza - si pronunciasse.
Adesso ha scoperto che cantare far bene. Uno studio svedese di un anno fa lo dice chiaramente: La struttura di un brano musicale produce variazioni nella frequenza cardiaca dei cantanti. Con il rigore di Frontiers (un network di revisione peer to peer di articoli scientifici), con una freddezza tutta svedese, col supporto di dati elettrocardiografici, segmenti di cardiofrequenzimetri e diagrammi di ogni tipo lo studio giunge ad affermare che i cuori di coloro che cantano in coro tendono ad allinearsi. Cioè, come si dice volgarmente da diversi secoli a questa parte, si accordano. Bene, ora lo sappiamo.
Non sapevamo invece, come ci ha detto lo studio, che una certa forma di accoppiamento tra il battito cardiaco e l’aritmia respiratoria sinusale (che però non sappiamo cosa sia, perché lo studio dà per scontato che lo sappiamo) ha un effetto calmante e favorisce il corretto funzionamento dell’apparato cardiovascolare. Interessante.
Chi di noi ha pratica di canti alpini, di gospel o di blues, e - situazione certamente minoritaria - di musica liturgica tibetana, è tentato, leggendo Frontiers, di pensare che all’origine dello studio ci sia proprio quest’ultima, nella quale la respirazione emerge in tutta la sua potenza e la sua sonorità nei canti che non si smetterebbe mai di ascoltare. I Lama, al pari dei loro colleghi buddisti del Monte Koya, sono uno spettacolo quando cantano, cioè respirano. E si capisce che sono un cuore solo anche senza applicar loro elettrodi sulle dita o sulla pelle (altro segno questo, dell’origine orientaleggiante dello studio, perché mettere in relazione la conduttanza della pelle, la temperatura delle dita e la frequenza cardiaca è un procedimento diagnostico della medicina cinese).
Sinceramente non sentivamo alcun bisogno di queste conferme che pure fanno piacere. Chi è abituato a recitare i salmi in retto tono - per esempio in una abbazia benedettina, o in una comunità di laici ben allenati - sa che se non si prende il respiro tutti assieme vien fuori un bailamme. La cacofonia tipica di certe messe in cui i fedeli, non paghi di recitare antifone e responsori ciascuno per conto suo, cantano non seguendo il canto ma cercando di dare ad esso la colorazione che ciascuno sente più propria. Le persone più sensibili, in questo caso, non riescono a inserirsi: gli si sbalestra il sistema nervoso secondario. Il “nervo vagotonico” come dicevano in campagna, da cui dipendono umore, sete ed appetito. Segno, anche questo, del fatto che cantare ha molto a che vedere con la stabilità emotiva.
Osservazioni non scientifiche - soltanto empiriche - condotte in lunghi anni di pratica di feste e matrimoni su per i monti, portano infine a concludere una cosa che lo studio non dice: che anche se non si è totalmente padroni della propria attività cerebrale e se l’umore varia dalle profondità della malinconia alcolica alla letizia connessa col presentarsi di una ragazza in fiore il canto tende a unificare cuore e respirazione di coloro che vi sono coinvolti e degli astanti in generale. E anche la memoria, soprattutto quella non dichiarabile se non attraverso la neutralità generosa e accogliente del canto.
In un bellissimo e recente libro (Emmanuel Carrère, Limonov, Adelphi) l’autore narra di una visita del protagonista a Andrej Siniavskij, leggendaria figura di critico e letterato esule a Parigi perché espulso dall’URSS. Limonov ha portato con sé una ragazza russa. E quando questa si mette a cantare (perché faceva la cantante) Il fazzoletto azzurro, che è una specie di Lili Marlene russa, la scena che ne segue è indimenticabile: tutti che piangono, si abbracciano, si baciano tre volte come se tutta la loro vita fosse in quel canto.
Anzi, non “come se”: tutta la vita: cuore, muscoli lunghi e brevi, sistema vagotonico, valvole cardiache, superficie dermica e profumo di terra lontana era in quel canto.
Lo ha detto bene un poeta - russo anche lui, e morto in lager: Osip Mandelstam:
“A cantare davvero
e in pienezza di cuore
finalmente tutto il resto scompare:
non rimane che spazio, stelle e voce”.
E, poeta per poeta, anche uno nostro, il Giusti, ha detto la sua sulla funzione salvifica, o salutifera, del canto. Ricordate quella poesia, Sant’Ambrogio, in cui il poeta, accompagnato da un figlio del Manzoni, si reca in basilica e ci trova un reggimento di truppe imperiali a sentir messa, che cantavano
Era un coro del Verdi; il coro a Dio
là de' Lombardi miseri assetati;
quello: O Signore, dal tetto natio,
che tanti petti ha scossi e inebriati.
Qui - prosegue il Giusti - cominciai a non sentirmi più io. Gli accadde, insomma, di sentirsi non più così estraneo a quegli invasori. E la sensazione si fece più forte quando, terminato il patriottico Verdi,
un cantico tedesco lento lento
per l'âer sacro a Dio mosse le penne.
Era preghiera, e mi parea lamento,
d'un suono grave flebile solenne,
tal che sempre nell'anima lo sento:
e mi stupisco che in quelle cotenne,
in que' fantocci esotici di legno,
potesse l'armonia fino a quel segno.
Sentìa nell'inno la dolcezza amara
de' canti uditi da fanciullo; il core
che da voce domestica gl'impara,
ce li ripete i giorni del dolore:
un pensier mesto della madre cara,
un desiderio di pace e di amore,
uno sgomento di lontano esilio,
che mi faceva andare in visibilio.
Potenza della musica, mandare in visibilio. Portarci nel luogo dove tutto funziona a meraviglia. Qualunque ne sia - svedese, tedesco, lumbard o sudamericano - il motivo.