Come è andato il concerto

Capossela esaudito da Santa Lucia «Mi ha portato il pianobar, mi piace»

Capossela esaudito da Santa Lucia «Mi ha portato il pianobar, mi piace»
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Un palco dal doppio velo, uno che lo separa dal pubblico, l’altro dai musicisti. Un carillon vivente, lui, fin dall’inizio, la luce nella girandola dei ramoscelli che disegnano alberi spogli e minacciosi su quei veli. La luce porta in superficie il theremin, fondamentale, strumento dei fantasmi. Appaiono mostri dalle linee rupestri, ululati, creature in estasi. Sono narrazioni che scavano nel mito, nel folclore, nella natura magica e oscura. Nella notta più lunga dell’anno, quella del 13 dicembre, alla vigilia del suo 52esimo compleanno, il cappellaio matto Vinicio Capossela ha portato in dono a Bergamo Ombre nell’inverno, uno spettacolo di evocazioni immaginifiche che prendono forma grazie al lavoro della scenografa Anusc Castiglioni, abile nel maneggiare le piccole macchine sceniche costruite da Max Zanelli. Il teatro è quasi pieno (qualche decina di poltrone vuote c’è), segue il saltimbanco col fiato sospeso.

 

 

Vinicio si alza, la chitarra a tracolla, una luna sabbiosa come il deserto dei Calexico, per La Notte di San Giovanni. Poi si va sul fondo del mar, si parla di migranti, di Sea-Watch, di «noi europei corresponsabili del sistema che paga le navi libiche», del capitano dall’umanità sprofondata «quando ho raccolto dall'acqua quel bambino». Scorrono animali fantastici come la balena Goliath, «cannone puntato sull'abisso del cielo», il polpo d'amore, tentacoli rossi di paillettes e testa a teschio, la sirena Pryntil che canta in sirenese. Poi chicche snocciolate tra un brano e l’altro: «Al pesce, quando abbocca, l'esca piace moltissimo». Capossela non è perfetto, ma ci sta qualche piccola sbavatura, è uno spettacolo complesso, e troppa pulizia stonerebbe dal mood della serata.

 

 

Dopo un'ora di concerto nevica e se ne va il velo dietro, emerge la band, cappelli a larga tesa. Arrivano pezzi celebri: Il Paradiso dei calzini, Con una rosa, Maraja, a bordo di Un carrozzone di strumenti giocattolo e di percussioni imponderabili. Poi, da Canzoni della Cupa, Il treno. Far west. Mediterraneo. Il terremoto del tamburello di San Vito sconquassa il teatro di virtuosismo. Baccanale, Dioniso, maschere carnascialesche ataviche. Cade il velo col pubblico, l'ombra è realtà. Arriva Capossela/Santo Nicola, antesignano buffonesco del Santa Claus fagocitato dal consumismo. Parla di Sant'Alessandro, «che la prima volta non sono riusciti a tagliargli la testa». Altre battute: «Faccio miracoli al contrario. Uno non sa più a che santo votarsi, e allora vota (male)». Accende un cerino, metafora della parola, «e senza parole si resta soli, e soli non è meglio che male accompagnati». Poi Ovunque protegga con organetto a manovella, l’uscita, gli applausi, il bis. Si siede: «Santa Lucia mi ha portato il pianobar», dice bevendo un drink. «Sono stato esaudito. Esiste il miracolo». Vira sullo zodiaco: «Mi sono sempre trovato bene con il mio segno, il sagittario, mezzo uomo e mezzo animale, patisce il supplizio delle anime doppie. Tira la freccia e poi gli corre dietro». Nel finale rimastica al piano Wonderful World, perché il suo mondo è diversamente meraviglioso.

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