Città Alta ha respinto le catene I negozi son rimasti botteghe
Il cambiamento ha innestato il turbo e Città Alta sta cambiando a velocità impressionante. Cambiano i negozi, cambiano le persone, cambia l’atmosfera. Lo sforzo perché la parte sul colle di Bergamo non diventi una sorta di villaggio turistico è apprezzabile: il Comune di Bergamo ha approvato la nuova normativa sugli esercizi commerciali nei borghi storici che frena la tentazione delle grandi catene a insediarsi nella città antica; d’altro canto, ha in cantiere iniziative affinché la Regione (la materia è sua) ponga limiti alle case vacanze e bed & breakfast che negli ultimi anni sono letteralmente esplosi. Intanto, in ogni caso, Città Alta ha cambiato pelle. In questi ultimi dieci anni il numero di turisti nella nostra città è quasi raddoppiato (più cinquantacinque per cento dal 2014 a oggi). Alcune ragioni sono ben note, al primo posto lo sviluppo dell’aeroporto di Orio.
Questione di atmosfere. Il risultato è che Città Alta è cambiata in profondità. Dell’atmosfera del vecchio borgo resta poco. Quella città antica che era come un paese, dove tutti si conoscevano e dove dominavano i silenzi ormai è solo un ricordo. Soltanto alla mattina presto, alle sei, alle sette, si ritrova un barlume di quella Città Alta impagabile. Oppure nel tardo pomeriggio dei giorni d’inverno, dopo le cinque, quando fa buio, e allora le stradine sono quasi vuote e si sentono le voci dei pochi bambini che giocano attorno alla fontana del Contarini. In queste serate di luglio è tutto diverso. Mercoledì sera, verso le undici, ho attraversato Piazza Vecchia e sono arrivato sulla Corsarola, ho pensato di comperarmi una Coca Cola e di berla camminando. C’era gente, ma non la ressa. Ho cominciato a notare che le persone parlavano, ma io non capivo: erano tutti idiomi stranieri. Chi parlava in inglese, chi in spagnolo, chi in giapponese... e svedese e russo... Improvvisamente ho pensato che se vent’anni fa avessi descritto una Città Alta del genere, il mio testo sarebbe stato classificato come “fantascienza sociologica”, cioè quella narrativa che cerca di prevedere gli sviluppi della società, spesso esagerando i toni per fare comprendere meglio i rischi che un certo sviluppo comporta. Ecco, mi è sembrato di essere dentro una pagina di fantascienza sociologica. In questo caso qual è il rischio? È evidente, si tratta della perdita di identità, del venire meno di quello che abbiamo nelle nostre radici. Diventare gli attori di un circo, gli inservienti di un luna park. Abbronzati, sorridenti. E un po’ persi. È questo il nostro destino?
Le catene sconfitte. Sembrerebbe di no. O, meglio, solo parzialmente. Non diventeremo come Venezia. Questo lo dice Gori, lo ripete Robi Amaddeo, delegato per Città Alta, che sulla Corsarola ci è nato, vive e ci lavora da tutta la vita. Perché no? Perché ci rendiamo conto del rischio che affrontiamo, siamo consapevoli, e quindi possiamo adottare delle contromosse. Che funzionano abbastanza bene. Una mossa importante è mantenere la residenza. In questo aiutano anche i centocinquanta alloggi popolari che si trovano dentro le Mura (quaranta restaurati da poco). Un’altra mossa riguarda le botteghe. Sei o sette anni fa, mentre facevo un servizio su “L’altra Città Alta”, incontrai una coppia di giovani, era un pomeriggio di marzo. Dissero che una cosa che gli era piaciuta tanto era che sulla Corsarola non si trovavano i soliti negozi che si incontrano in tutte le città, non c’erano le solite catene, ma negozietti particolari, ognuno con una sua caratteristica…