È morto il 21 ottobre a 93 anni

Che cosa diceva ai suoi giornalisti il direttore del Washington Post

Che cosa diceva ai suoi giornalisti il direttore del Washington Post
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Il 21 ottobre, alla veneranda età di 93 anni, è morto Benjamin Bradlee, storico direttore del quotidiano statunitense The Washington Post dal 1965 al 1991. Basta un pizzico di memoria storica per notare subito che fu proprio lui alla guida del quotidiano della capitale americana al momento dell’esplosione di uno dei più grandi scandali politici a stelle e strisce: il Watergate, rispetto al cui scoppio proprio il Washington Post giocò un ruolo determinante. In 26 anni di direzione, Bradlee è divenuto un vero e proprio totem del giornalismo, una figura che ha saputo insegnare a generazioni di giovani scribacchini cosa significasse essere veri redattori di un quotidiano, spronandoli sempre secondo il suo credo: «Non abbiate paura di dire “scusate non ho capito bene”.  Imparate a scrivere, siate ambiziosi, abbiate degli ideali. Non fatevi spaventare da nessuno. Diffidate del potere e mettete in discussione la versione di chi governa. Poi lavorate, ancora di più».

Diffidare, mettere in dubbio: nel variegato e inestricabile contesto sociale e politico americano, per Bradlee era molto difficile arrivare alla verità, tanto che, come amava ripetere ai suoi collaboratori, «Se posso dare un consiglio, uno che non ho sempre seguito, è semplicemente questo: non gongolate; comprendete questo pensiero chiave di Albert Camus: “non c’è la verità, ci sono le verità” e continuate a lavorare».

Si accennava al Watergate, lo scandalo politico causato da alcune intercettazioni abusive effettuate nel quartier generale del Partito Democratico ad opera di alcuni infiltrati repubblicani, che avrebbe portato alle dimissioni del Presidente Richard Nixon. Il Washington Post giocò un ruolo fondamentale nel far emergere i fatti e nella pubblicazione delle registrazioni, ed è facile immaginarsi Bradlee passeggiare avanti e indietro nel suo ufficio, meditando sull’enorme responsabilità e occasione di notorietà che era capitata nelle mani sue e del suo giornale e ripetendosi la sua personale regola aurea di ogni buon direttore che si rispetti: «Scegli le tue battaglie non evitarle. Ma non combattere avversari di secondo piano».

Certo, far esplodere un caso di tale risonanza avrebbe potuto avere conseguenze gravi e inimmaginabili, non solo sul Paese ma anche sullo stesso Washington Post; si sarebbe potuto anche non dire nulla, fare come se niente stesse accadendo, insomma mentire. Ma non era nello stile di Bradlee scendere a compromessi con la verità, non era da buon giornalista farlo, poiché «fino a quando un giornalista dice la verità, in coscienza e onestà, non tocca a lui preoccuparsi delle conseguenze. La verità, a lungo termine, non è mai pericolosa quanto una menzogna. Credo davvero che la verità renda liberi».

Decise allora di tuffarsi a capofitto nel Watergate, tentando di ricostruirne la vicenda con calma, senza la smania di voler arrivare subito a conclusioni definitive: lo sapeva bene, infatti, che «la prima cosa da capire, quando si prende in mano il giornale, è che nessun articolo contiene la verità. La verità è un processo, ci si arriva giorno dopo giorno, grazie a sforzi comuni di giornalisti e lettori». E due giornalisti che senz’altro lo aiutarono fortemente nella caccia alla verità del Watergate furono Bob Woodward e Carl Bernstein, due giovani cronisti a cui fu affidato da Bradlee stesso il compito di indagare sui fatti in questione.

Poteva essere un compito davvero molto oneroso e preoccupante per due come Bob e Carl, e questo Bradlee lo sapeva bene; ecco perché amava ripetere loro, come a tutti i giovani aspiranti giornalisti con cui aveva a che fare, che «l’unica tiritera che vi posso rifilare è che dovete divertirvi mentre lavorate. Divertitevi. Il giornale sarà eccellente se vi divertirete». Gli piaceva scommettere su giovani brillanti e di talento, era l’unico modo con cui il giornale poteva essere «croccante, serio, allegro, senza crinoline», come lo voleva lui; e quale modo migliore per ottenere questo risultato se non «assumere persone più intelligenti di te e incoraggiarle a sbocciare?».

Intanto, l’inchiesta sul Watergate procedeva, e più la questione si approfondiva, più occorreva essere precisi nelle informazioni ricevute e offerte ai lettori; d’altra parte, «alcuni giornalisti usano fonti anonime solo perché sono pigri, i direttori dovrebbero insistere su identificazioni più precise pur mantenendo l’anonimato», ed è in forza di questo che Bradlee teneva moltissimo alla fondatezza di quanto i suoi collaboratori mettevano nero su bianco, perché «se un cronista inventa, non ci sono difese». Alla fine, il lungo lavoro del Washington Post sul Watergate ebbe risultati straordinari, facendo emergere definitivamente lo scandalo, e consegnando al quotidiano della capitale il titolo di giornale più letto dell’epoca. Una gran soddisfazione per l’ambizioso Bradlee, che affermò: «Le registrazioni del Watergate mi faranno finire nella bara con un gran sorriso stampato in faccia».

Se n’è andato insomma un maestro del giornalismo, un direttore particolarmente attento alla formazione dei suoi collaboratori, alla continua ascesa del suo quotidiano («se il giornale di oggi è migliore di quello di ieri, e quello di domani più azzeccato di quello che stiamo leggendo, io sono contento: ecco la mia filosofia») e, dovremmo sempre averlo tutti a mente, un grande amante della verità così com’è, con rispetto e quasi reverenza nei suoi confronti, perché «non si scherza mai con la verità».

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