Ancora non ci crediamo

Eravamo lì, in una notte infinita

Eravamo lì, in una notte infinita
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Per godersi la leggenda, un panino e una bibita possono bastare. «Oh, dieci euro. Caro, eh. Ma cosa vuoi, questa è una giornata di festa». Alla fine si manda giù anche il caro prezzi pur di essere qui a vedere la Dea farsi un giro sulla giostra dell’Europa. Un’ora prima dell’Everton, gli oltre dodicimila venuti da Bergamo hanno gli occhi che scintillano. «Ho l’ansia - dice Claudio -, per venire a vedere questa partita incredibile mi sono preso il giorno di ferie, e tra benzina, biglietto, panino, bibita, autogrill... Va be’, lasciamo stare. Ma volevo esserci anche io, il resto non conta niente». In questi ultimi ventisei anni ci si è abituati a un sacco di cose, ai tornelli, ai biglietti elettronici, alla moltitudine di offerte e offertine, e ci si è abituati pure all’euro. Ma quando lo spettacolo comincia non ci si pensa più. Anche la storia ha il suo prezzo.

 

 

Tutta Bergamo a Reggio Emilia. Il Mapei Stadium non è la casa dell’Atalanta. Hanno provato a camuffarlo con i teloni, i poster, le scritte, e d’altra parte c’era poco altro da fare visto che a Bergamo giocare non si poteva. La festa era già cominciata sull’autostrada. Al casello era una colonna lunga così di macchine con le sciarpe, le bandiere, e la gente si sporgeva dal finestrino a cantare e urlare forza Atalanta. Una volta dentro, però, il colpo d’occhio è indimenticabile. Tutta Bergamo sembra qui, forse è qui davvero, in uno spicchio che sembra un piano inclinato. «Oh Percassi salta con la Curva!». «Berisha uno di noi!». «Baila come el Papu!». Poi entra la squadra, musica a palla, brividi. Il riscaldamento è solo un antipasto. Signori, godetevela. «Devono dare tutto, tutto - mulina i pugni Antonello venuto qui con la piccola Viviana -. È l’unica cosa che conta e conterà sempre». E infatti. Dopo neanche mezzora, angolo, la palla arriva a Masiello - che poco prima se l’era fatta deviare -, e quello spicchio nerazzurro diventa come un’onda, anzi come un abbraccio collettivo per il primo gol nerazzurro in questa nuova avventura formato Europa. Il boato è assordante. Tutti saltano, cantano ballano. Qualcuno si mette le mani in testa, non ci crede. Qualcuno è rosso come un peperone a forza di urlare. È la festa della Dea, altro che festa di provincia.

È cambiato il mondo. L’ultimo gol in coppa l’aveva fatto Nicolini. «Ero giovane ma quel gol me lo ricordo bene, me lo ricordo eccome - sorride Alberto -. Non avevo figli, facevo un altro mestiere, e invece adesso guarda qua che roba». Tiene per mano il piccolo Giovanni, biondo, alto così. Ovviamente con la maglia dell’Atalanta addosso. Non vede l’ora di entrare nel paese dei balocchi. Dall’ultima volta dell’Atalanta in una coppa europea è cambiato il mondo. Tutti tirano sempre fuori la sera che l’Atalanta perse i quarti contro l’Inter, la fine di quella corsa forsennata in Coppa Uefa che invece era iniziata contro la Dinamo Zagabria. Il ritorno l’Atalanta lo giocò là e in sottofondo si sentivano i rumori della guerra in Jugoslavia e i venti di cambiamento in ogni angolo del continente. Era settembre, proprio come stavolta, solo che in Italia si moriva ancora per le stragi di mafia, per viaggiare bisognava fare la fila alla frontiera col passaporto in mano, e c’erano due Germanie, anche se sarebbero durate ancora poco. C’era la guerra del Golfo, e se eri in giro e dovevi avvisare a casa ti conveniva fermarti in un bar o alla cabina a gettoni, anche se stavano già scomparendo.

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È la grande bellezza. Moltissimi di quelli che sono a Reggio Emilia, all’epoca avevano sì e no due-tre anni, qualcuno neanche era nato, e ovviamente sono tutti preparatissimi comunque: l’EuroAtalanta l’hanno studiata tutta su YouTube. «Sì, ma vuoi mettere con questa qui dal vivo? È come toccarla, non so bene come spiegare». Lo dice Francesco, che ha vent’anni, ma sono in tanti a pensarla come lui. E figurati quando Gomez fa il bis con un gol da epica, da cineteca, da monumento. È la grande bellezza, è la grande Atalanta. «Non potremo mai scordare questi momenti, adesso fanno parte di noi». Sandro è il nonno di Michael, uno dei tanti scricciolini con addosso la mini-maglia di Gomez. E poi qualcuno si lancia addirittura in paragoni, ma sul 3-0, effettivamente, non sembrano sbagliati: «Una roba così l’ho vista quando ero piccolo - dice Angelo -, tipo il Milan di Sacchi o non lo so, l’Olanda, hai presente?». Ma questo è meglio, questa è l’Atalanta del Gasp. «È meglio perché i protagonisti questa volta siamo noi, siamo noi, l’Atalanta siamo noi…», chiarisce bene il punto Alessandra. E ha ragione. Ventisei anni dopo è cambiato il mondo, che adesso è diventato piccolo così, e a sentire i giovani che vanno a studiare in Spagna o in Inghilterra o in America deve proprio essere vero. Qualcuno dice che la colpa è dell’Internet, e nel frattempo siamo diventati esseri digitali, ci si fa i selfie a tavola, allo stadio, ci si manda un vocale, e puoi vedere tutto in tempo reale, persino il frigorifero ti dice di andare a fare la spesa che manca una robina per la vecchia ricetta di nonna. Figuriamoci i live dei gol.

Una nuova generazione. «Sognavo di vedere l’Atalanta in una coppa. Lo sognavamo tutti, quindi non svegliateci adesso che l’è longa ancora». Già, questa Europa League si annuncia lunga e bellissima. Paolo è venuto giù dalle Valli, ha chiesto il permesso al lavoro anche lui. È la nuova schiera di tifosi nerazzurri, quella che all’Atalanta ci va come in pellegrinaggio e non smetterebbe mai di cantare. E tra questi ragazzi c’è anche Luca Percassi, che di anni nel ’91 ne aveva undici, e guardalo lì come è diventato grande e responsabile oggi. Fa il disinvolto, ma il ruolo del giovane manager se l’è sudato, l’ha imparato, e adesso anche lui si gode questo sogno dell’Europa League. Ventisei anni sono una generazione. Cresciuta a racconti sul Malines, sul grande capitano Stromberg, sul corazziere Garlini. Calciatori diventati mitologia da tramandare, o come favola della buonanotte. E sarebbe continuata, se non fosse che da ieri il calcio bergamasco ha rinnovato la storia. Spolverando i vecchi ricordi e aggiungendone di nuovi. Aggiungendo questo risultato da batticuore.

 

 

Se si gioca da Atalanta... È tutto bello, perfetto, sentimentale. Al punto che la serata contro l’Everton è più avvincente e più reale di una partita alla Playstation, di un giro a Disneyland. Contro Rooney, per giunta, vecchio ma sempre fine graffiante. Quando esce lui i fischi piovono giù, era l’attaccante il più temuto. Dicevano tutti: «Loro forti, ma se giochiamo da Atalanta...». Lo dicevano sì, prima del fischio d’inizio. Ma dopo un primo tempo in stile Barcellona o Real Madrid lo dicono proprio tutti. Tant’è che il secondo tempo scivola via lento, leggero, tra un coro a Gasperini («Gasperini olé, Gasperini olé!»), una sciarpata da lacrimoni, una traversa che poteva essere un altro eurogol, e qualche altra cosetta. Come le sostituzioni di Petagna e di Masiello, eroi di questa serata. «Siamo fieri di questi ragazzi, sono i nostri giocatori», dice Andrea mentre esce dallo stadio abbracciato alla ragazza.

L’affetto di un popolo. Prima che la squadra vada a festeggiare negli spogliatoi, la gente si allunga in un oooooh: “Venite qui, venite da noi”, sembrano dire. Sono a centrocampo, tutti uniti in un abbraccio. I giocatori si guardano, increduli. Ma è tutto vero. E allora via, la squadra si prende tutta per mano, corre sotto la Curva. Non c’è più spazio per raccontare la gioia. Bisogna sentirla. E anche quando la squadra è ormai nel tunnel, i tifosi nerazzurri sono ancora lì a cantare. Questa notte non finirà mai. D’altra parte: ventisei anni sono tanti, e sono passati anche quelli. È cambiato tutto. Ma quello che non è cambiato è l’affetto di un popolo. Sempre qui, a tifare la Dea.

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