Una storia di coraggio e speranza

Il ragazzino kamikaze del Califfato che ha scelto di non farsi esplodere

Il ragazzino kamikaze del Califfato che ha scelto di non farsi esplodere
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Qualcuno non si è fatto problemi a chiamare la storia di Usaid Barho un messaggio di speranza, regalo di Natale inatteso nella terra più martoriata di odio e violenze in questi anni, la Siria. Lui è un ragazzino di appena 14 anni che è scappato dall’Isis usando il metodo più rischioso che ci fosse, cioè fingersi kamikaze salvo poi, all’ultimo, non farsi esplodere e consegnarsi alle autorità irachene. La sua storia è stata raccontata dal New York Times, e, oltre a fare onore alla scelta nobile di questo adolescente, lascia intendere come funzionino arruolamenti e attentati sotto gli ordini del Califfato.

Ci sono persino le immagini del “salvataggio” di Usaid: la tv irachena le ha trasmesse, non certo senza enfatizzare un po’ la vicenda, mostrando come sia stato spogliato del giubbotto esplosivo che si era fatto mettere per far strage in una moschea sciita di Baghdad. E poi c’è il suo stesso racconto di quei momenti drammatici, dove la speranza di libertà si fondeva con la paura qualcosa andasse storto: tuta gialla da prigioniero, Usaid non sembra essere preoccupato delle manette che ora gli stringono i polsi, ma piuttosto rilassato per avercela fatta.

L’incubo di Usaid aveva i colori di un sogno dalle tinte nere dell’Isis, per il quale era stato ricettato, giovanissimo, per combattere la guerra d’espansione dello Stato Islamico. Prima era un ragazzo normalissimo: amava il calcio, non perdeva un film di Jackie Chan né un album della cantante pop Nancy Arjam. «Ci hanno sedotti a unirci al Califfato», racconta, ricordando il giorno in cui fu adescato in una moschea a Manbij, la sua città natale vicino ad Aleppo. «Mi hanno impiantato l’idea che gli Sciiti sono infedeli e che dobbiamo ucciderli». Se non avesse combattuto, gli dissero, gli sciiti avrebbero violentato sua madre.

 

http://youtu.be/okaPz0bvTKw

 

Poi c’è stato il trasferimento in Iraq, le lezioni fisiche e religiose in uno dei tanti campi d’addestramento per giovanissimi: nel deserto ha imparato ad usare fucili da assalto e a combattere a mani nude. Ovunque, quell’attenzione spasmodica per i più piccoli, i “lupetti del Califfato”, come vengono definiti in alcuni video prodotti dai fondamentalisti, a ricordare quel binomio tra potere e educazione necessario ad ogni ideologia per autoprodursi. Ma dopo un po’ Usaid ci ha ripensato, e quando a Mosul è stato messo di fronte ad una scelta - «andare a combattere o diventare un kamikaze?» - lui ha scelto la seconda. «Alzai la mano per diventare un attentatore suicida», sicuro che ciò gli avrebbe offerto la migliore opportunità di fuga. «Se fossi diventato un combattente e avessi poi tentato di arrendermi mi avrebbero sparato con ancora la mia arma in mano».

È stato portato così a Baghdad assieme ad un altro volontario tedesco: per alcuni giorni ha girato la città, passando da un gruppo operativo all’altro, per studiare luoghi e vie. Poi, per una settimana, è rimasto a Falluja, finché poi è arrivato il giorno. Di prima mattina si è alzato e gli è stata offerta la colazione, gli è stato infilato il gilet esplosivo e gli è stato assegnato l’obbiettivo: una moschea sciita a Bayaa. Poche ore dopo Usaid si trovava sull’ingresso dell’edificio religioso: «Aprii la mia giacca e dissi: “Ho un giubbotto esplosivo, ma non voglio farmi esplodere”». Quanto successo dopo è stato filmato dal cellulare di uno dei presenti: la gente scappa terrorizzata, un ufficiale capisce le intenzioni di Usaid, lo fa sedere e lo sveste. Quanto gli è successo in seguito è ancora poco chiaro: il ragazzo è stato portato in un luogo segreto, adesso vorrebbe raggiungere la sua famiglia in Siria ma ancora non è stato liberato.

Nell’intervista alla tv irachena dice che vorrebbe diventare medico e magari andare in Turchia a studiare. Un sogno diverso da quello che, qualche mese fa, qualcuno gli aveva inculcato in una moschea in Medioriente.

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