Al tribunale di Bergamo

Il giudice che ha confortato il padre del giovane condannato

Il giudice che ha confortato il padre del giovane condannato
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Ha assistito attonito all'arresto del figlio, vent’anni non ancora compiuti, nella cui camera da letto, in mezzo a cd musicali, felpe, scarpe da ginnastica e jeans all'ultima moda, i carabinieri hanno trovato oltre seicento grammi di marijuana, sette dosi di cocaina e la rilevante somma di 4.500 euro in contanti, una cifra considerevole per un ragazzo di quell'età, che da tempo ha abbandonato gli studi, ma che è disoccupato. Non solo. Il genitore, un artigiano edile del Sebino, ha poi accompagnato il ragazzo in tribunale, dove è stato processato per direttissima ed è stato condannato a un anno e due mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena.

 

 

E qui viene il bello di questa storia, con il giudice Giovanni Petillo, il magistrato che ha pronunciato la sentenza, che si alza, va incontro all'affranto genitore, gli stringe la mano, un segno di conforto nei confronti di una persona distrutta dal dolore, e lo esorta a stare vicino al suo ragazzo. Succede anche questo nelle austere aule di un palazzo di giustizia, con un rappresentante della magistratura che dimostra tutta la sua umanità e sensibilità in un periodo in cui i giudici italiani non riscuotono certo il consenso popolare, accusati di celebrare i processi con lentezza (i nostri dibattimenti durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna) e di non avere nessuna sensibilità nei confronti di coloro che devono giudicare.

 

 

Il caso del dottor Giovanni Petillo, però, dimostra che è sempre sbagliato generalizzare e che, in mezzo a fannulloni e incapaci (esistono in tutti i lavori), ci sono giudici preparatissimi e dal volto umano. Probabilmente il magistrato napoletano, in forza al palazzo di giustizia bergamasco da moltissimi anni (è stato anche pretore, prima che questa figura scomparisse), ha notato, nel corso del dibattimento, il padre del ventenne in fondo all'aula. Un uomo spento, senza nemmeno rabbia. Niente. Rassegnato. Ha passato l'intera udienza seduto, con le mani a tormentarsi il viso, gli occhi attaccati ai carabinieri che stavano rendendo la loro deposizione, come se volesse attirarne lo sguardo e dire loro qualcosa in difesa del figlio, lo sguardo simile a quello del protagonista di certi film catastrofici che scappa disperatamente, inseguito dall'acqua che sta inondando un sotterraneo. Ecco, questo deve aver visto, tra una deposizione e l'altra, il giudice Giovanni Petillo, non nuovo a gesti simili nei confronti degli imputati.

 

 

Un magistrato, basta chiedere a chiunque nel palazzo di giustizia di via Borfuro, molto preparato, severo quando deve esserlo, ma dotato di sensibilità e umanità. E di grande buon senso nell'applicare la legge. Lontano anni luce dal cliché del magistrato che relega il difensore in un ruolo accessorio rispetto allo strapotere autoreferenziale di taluni giudici e pubblici ministeri: come se l'avvocato e ciò che avrebbe potuto dire durante un'udienza, non avesse alcuna importanza. No, secondo Petillo accusa e difesa hanno la stessa parità giuridica (che è la base del diritto in Occidente) e l'imputato, qualsiasi reato abbia commesso, anche il più grave, deve essere considerato una persona con i suoi diritti.

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