Un'umanità soprendente

Il padre della tabaccaia di Asti Così si fa. E ci scusi se ne parliamo

Il padre della tabaccaia di Asti Così si fa. E ci scusi se ne parliamo
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Così si fa. Così. Un poveretto “alto e un metro e una lattina” come lo ha definito un suo amico, un poveretto con una figlia malata che non sa come curare, uno che di cognome fa Folletto come un aspirapolvere uccide una brava ragazza - la tabaccaia di Asti, come la chiamano i media - e il padre di lei dice a La Stampa: «Ho saputo che quest'uomo ha una figlia malata. Purtroppo. Se lei avrà bisogno noi ci saremo. Faremo il possibile per rendere meno dolorosa la sua sofferenza. La sua famiglia, uccisa anch'essa da un gesto folle, non ha colpe».

Non bisognerebbe nemmeno riportarla, questa notizia. Né dire che nella stessa occasione lo stesso padre ha detto che di quel che passerà fra la sua famiglia e quella di Folletto non parlerà con nessuno. Rimarrà una questione fra loro.

Non bisognerebbe nemmeno dire “Bravo”. Perché chi siamo noi per distribuire patenti a chi ci supera di due spanne e mezzo. O forse tre, o forse nessuna: ma chi se ne importa di chi è bravo e chi no. E poi vorremmo anche evitare al signor Fassi il fastidio di doversi difendere da tutti quelli che gli diranno: Ma come è stato bravo lei, Ma che persona speciale. Le solite fregnacce.

 

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Il fatto è che nell’occasione non ci è tornato in mente solo il suocero di Azouz, il signor Castagna di Erba che ha avuto la moglie, la figlia e il nipotino e una vicina di casa sterminati da quei due che volevano l’ordine nella corte di via Diaz. Ed ha avuto pietà di ognuno, compreso se stesso.

Ci è venuta in mente - e sono tanti, davvero tanti anni che lo coviamo, in attesa di un’occasione degna per celebrarne la memoria - una persona di oltre ottanta anni, di professione accordatore, che viveva in provincia di Torino (Chivasso, può darsi?) e che una notte, tornando a casa dopo aver curato un pianoforte da qualche parte, finì con la sua auto in un fosso. C’era nebbia: non vide - o forse non c’era nemmeno - la banda bianca laterale della strada provinciale, e si trovò dentro l’acqua. La mattina, quando andarono a recuperarlo, disse di esser lì da poco dopo la mezzanotte. Sempre come fosse in una vasca, vestito, tranquillo. A chi gli chiese perché non avesse chiamato soccorso - aveva il cellulare. E funzionava - rispose che a quell’ora non aveva voluto disturbare nessuno per una cosa di così poco conto. Aveva pensato che prima o poi qualcuno sarebbe passato.

Uomini così meriterebbero il tributo imperituro della popolazione, il cavalierato perpetuo, il collare dei santi Maurizio e Lazzaro e magari anche quello di santa Rosalia, se anche questo non sembrasse in qualche modo una violenza fatta alla loro impagabile discrezione, al loro riserbo.

Come la famiglia Fassi, che speriamo nessuno voglia intervistare a Porta a Porta, a Quarto Grado, a Quinta Inchiesta (che non esiste), insomma dove si vorrebbe scavare dove non c’è niente proprio niente da scavare e tutto da lasciare che vada dove il Signore sa che deve andare. Ci ricorderemo di loro nelle nostre preghiere, come abbiamo fatto con l’Ignoto Accordatore.

Quando Desiderio, il re longobardo padre di Ermengarda, chiede alla figlia tornata a casa perché ripudiata da Carlo Magno cosa pensi di quel delinquente, lei risponde pulita pulita: «Padre, nel fondo di questo cuor, che vai cercando?».

Appunto. Il cuore. Ce n’è così bisogno di puri che, davvero: basta così. Solo: se qualcuno sta pensando da giorni come farla pagare cara a quello della scala A perché suo figlio - di anni tre - gli ha fatto un segnetto sull’auto con la biciclettina, beh, questo qualcuno, in nome del signor Fassi, lasci perdere.

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