Il “ponte che balla” di Clanezzo, antenato dei tibetani (oggi di moda)
Fu costruito nel 1878 e sostituì definitamente il traghetto
Si respira un’aria magica, nel cuore di Clanezzo. È uno dei luoghi più belli della Val Brembana, forse dell’intera provincia bergamasca. Fin da primi passi sembra di immergersi nel Medioevo. Proprio all’imbocco del borgo, in posizione panoramica sul fiume Brembo, c’è il Ponte di Attone, costruito attorno all’anno 1000 per volere del conte Attone Leuco, allora signore di Almenno. Il ponte in pietra a una sola arcata è ancora oggi percorribile ed è un bellissimo esempio di architettura medievale. A Leuco si deve anche la costruzione di un primo castello, posto sulle pendici del Monte Ubione e di cui, oggi, restano solo alcuni resti sulla cima della montagna. Non lontano, però, è stato costruito nel 1878 (è ristrutturato un secolo d’uovo) il “ponte mobile”, che oscilla a ogni passo rendendo il passaggio da una sponda all’altra abbastanza movimentato, a memoria del traghetto presente all’epoca. Si tratta di uno dei primi esempi ottocenteschi di struttura realizzata con la tecnica delle funi portanti sulla riva, in stile cosiddetto “tibetano” (molto in voga oggi nei luoghi turistici) ed è lungo 75 metri. Per collegare l’isolata Clanezzo fu costruito infine, nel 1925, un ponte ad arco, che collega direttamente in quota i due pianori che si fronteggiano.
Che storia. Un posto magico, Clanezzo. Lo sapevano anche i nostri antenati del paleolitico, che già frequentavano questa zona e hanno lasciato tracce qua attorno. Antenati del paleolitico, del neolitico e poi anche i Romani qui ebbero un insediamento (si sono trovate monete dell’impero e delle tombe, a fine Ottocento, quando si fecero i lavori per la chiesa di San Gottardo) che non si interruppe mai, visto che nel medioevo questo luogo era ben abitato con il suo castello fortezza, poi ingentilito nel XVI secolo e diventato il palazzo che vediamo oggi, cento metri sopra i fiumi e i ponti. Un posto magico che è in pericolo. L’antico maglio è perduto. Era un grande edificio in pietra, costruita sul pendio. Nella parte superiore c’era l’alloggio, ancora si può riconoscere il camino. Ma la soletta è sfondata, come il tetto, finita giù, in quello che veniva definito l’antro del diavolo. Perché lì sotto c’era il maglio, c’era il fuoco del carbone, picchiava il martello, girava la mola e tutto intorno era nero e sul soffitto, in alto, venivano giù delle ragnatele, nere anche loro. Chi lo ha visto in funzione, ancora in quegli anni Ottanta, ne parla con nostalgia. C’era un fascino profondo. Una buona notizia c’è, però, ed è recente, a Clanezzo: la “casa del porto” verrà salvata.