«La gente non riesce più a ridere»

Andreoli pubblica La gioia di vivere (come vincere le nostre paure)

Andreoli pubblica La gioia di vivere (come vincere le nostre paure)
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Pubblichiamo una parte dell'intervista allo psichiatra Vittorino Andreoli, realizzata da Goffredo Pistelli, apparsa su Italia Oggi di mercoledì 30 marzo col titolo: La gente non riesce più a ridere. Andreoli offre una interessante chiave di lettura su noi stessi e sulle nostre paure, anche alla luce degli ultimi tragici episodi di cronaca, da Bruxelles a Roma, e indica una possibile via d'uscita dal "delirio" quotidiano.

 

La gente non riesce più a ridere

(Italia Oggi, 30 marzo 2016)

 

Nel mezzo di una realtà plumbea, innervata di mille paure, ecco che Vittorino Andreoli, se ne esce con un libro su La gioia di vivere (Rizzoli). Questo psichiatra, veronese, classe 1940, dai molti studi all'estero e noto per tanti libri sui sintomi della pazzia vera, clinica, piuttosto di quella, latente, nella società italiana, spiazza con un ragionamento in apparente controtendenza. Lo intervistiamo quasi in contemporanea ad attacchi terroristici efferati di questi giorni, per cui l'appello a vivere gioiosamente suona davvero paradossale.

Professore, vivere con gioia oggi parrebbe impossibile.

«Guardi che io vivo in mezzo alla sofferenza più estrema, la follia, che sono 55 anni. Ed è una forma di dolore, come del tipo del soma, per cui le fa male un arto, chessò, la testa. Però la follia risente anche dell'ambiente in cui si vive».

Il mondo, insomma, non aiuta.

«Il mondo è veramente molto complicato, pieno di stimoli interessanti sì, ma senza certezze. Abbiamo perso ogni tipo di certezza».

Un mondo da cambiare.

«Dovrebbe cambiare. Platone pensava che la gestione delle città dovesse portare alla felicità, che chi amministra il mondo, la società, una città, abbia che fare proprio con la sofferenze anche mentale. Io non ho molta fiducia e allora indico un'altra via, anche per me stesso, che sono un tragico».

Ossia?

«Se non si può cambiare il mondo, bisogna vederlo in modo diverso. Molto semplice. Come inforcando un altro paio di occhiali. Perché, è anche vero che tutto, voi giornalisti, la tv, questo mondo ce lo leggete sempre, ce lo riportate, secondo alcuni paradigmi e son sempre quelli: l'economia, la politica nel senso del potere, la crisi».

Invece mettendo degli ideali occhiali diversi?

«Si possono vedere altre dimensioni, forse meno eclatanti ma più normali. Questo libro sulla gioia di vivere, scritto da un tragico, ripeto, nasce perché io constato che i sintomi visti nei mie matti li vedo sparpagliati nella società, in modo intenso».

Ma serve cambiare la visione del mondo?

«Passare da una visione del mondo dalla fatica del successo, dell'imbroglio, che è faticoso, alla joie de vivre, si può. Glielo spiego: se lei entra in una stanza del suo giornale vede, ogni giorno, cinque cose; se porta me, ne vedrò altre cinque. È un grande tema della psichiatrica ma anche della filosofia che insegna a vivere: Karl Jaspers scrisse un libro che si chiamava la Psicologia delle visioni del mondo. In fondo faccio il mio mestere: penso alle persone, ai noi tutti, compreso me e lei. Rispondendo alla domanda sul come si fa vivere un po' meglio, ché soprattutto la vita sociale è difficile».

Appunto, come si fa?

«Ho capito che c'è un'esigenza di poter guardare alla realtà, che fa paura, ai vicini, che non si sa più chi siano, ai grandi, che dovrebbero fare il mondo, e invece sono dei ladri. E allora bisogna guardare i "Nessuno", ossia quelli che non si vedono, ma che sono persone serie e oneste, parola quest'ultima che è stata tolta dal vocabolario della nostra esistenza».

Per grandi, intende i politici.

«Sì, i cosiddetti politici. Persone che dovrebbero cambiare il mondo, rendendoci un po' più di senso di giustizia, di eguaglianza, con meno falsità, e diventando persone che possano attrarci. Lei sa che io non parlo mai di questo tema, però alcuni li avrei curati volentieri».

La politica dallo psichiatra, prima che dallo psicoanalista?

«In passato mi sono anche proposto di andare a palazzo Chigi gratuitamente, e per me è un grande regalo, perché le mie diagnosi costano, ma non mi hanno voluto. Se questi, però, non riescono a migliorare il mondo ma, anzi, lo peggiorano, cerchiamo di vedere nel mondo un altro mondo».

Come si fa, professore?

«È chiaro che bisogna cominciare a dire che stiamo buttando i nostri affetti, i sentimenti, i quali non dipendono dal denaro, almeno quelli. Pensi solo a questo fatto».

Prego.

«Esprimiamo la violenza più grande con le persone a cui vogliamo bene, la violenza in famiglia è drammatica. Vogliamo, invece, cominciare a dare importanza ai legami? Una volta, negli anni '60-'70, ci preoccupavamo perché buttavamo le scarpe ancor buone. Oggi, impassibili, buttiamo via i sentimenti, che significa gettare la nostra piccola storia, gettare identità, sicurezza, certezza! Di certezze, oggi, non ne abbiamo nemmeno una. Persino gli dei si sono messi a fare la guerra».

Si riferisce ai fatti di Bruxelles e Lahore?

«Sì penso alla religione: Dio è in guerra, in un certo senso».

Negli anni '70, diceva prima, si sprecavano le cose, oggi i sentimenti. Siamo da un consumismo all'altro?

«Certo. Cambiare un paio di scarpe riguardava i piedi, i sentimenti riguardano l'esistenza. Tra un paio di scarpe e un legame tra padre e figlio c'è una bella differenza, per non dire di un rapporto di coppia. Buttiamo via le certezze, dicevo. Se vado a dire che sono sposato con la stessa donna da 49 anni, i miei colleghi psichiatri mi prendono per matto. Loro cambiano ogni anno, hanno trovato la soluzione. Dicono, ridacchiando: «Vittorino ha sempre quella?». Pensano che sia impotente, tanto che, una volta, in un convegno di quelli importanti, ho detto che non è vero».

Al di là della battuta?

«Abbiamo buttato via a tal punto, che rimanere nei legami è segno di patologia. Certo, un legame che non funzioni va cambiato, ma un conto è cambiarlo, un conto gettarlo via».

Prima diceva che i sintomi sono nella società. Quali vede?

«Non conosco una persona che non sia presa da paura, da panico. E non solo per Bruxelles o altro, ma perché non sa il domani, come modalità di promuovere, di fare progetti, di migliorare. Siamo senza futuro. Del resto voi, sull'economia, parlate solo di disastri».

Non è un bel momento.

«Sì, ma se uno come me, che non capisce nulla di finanza, segue la Borsa, deve dire che è malata di mente, per il suo andare su e giù. Siamo senza futuro e il problema non è solo degli adolescenti, ma di ciascuno di noi: "Il lavoro ci sarà, domani?". Sa, il lavoro non è mica poco, visto quanto conta il denaro. Non tanto tempo fa, a Verona, mi chiamarono perché in tre mesi si erano suicidati 13 imprenditori. L'economia è diventata tanto importante che, senza denaro, è come se uno fosse senza aria».

E allora, che fare?

«Bisogna cominciare a guardare qualcosa che non sia denaro-dipendente. Questa è crisi esistenziale, in cui c'entra anche l'economia. C'è il sintomo di una paura diffusa, insieme a quello della depressione, che determina un senso di smarrimento e il sentirsi perseguitati».

Come si fa per guarire?

«Bisogna che ci sia una comprensione dei fenomeni, dall'immigrazione al mercato, a quello che vogliamo».

I fenomeni importanti.

«Certamente, ma ci vuole un'interpretazione adeguata. Se lei considera la cultura del nemico, significa che chiunque lei incontri, è contro di lei. Un mondo fatto di nemici, ma non si può combattere con tutto il mondo. Se invece lei considera la cultura della cooperazione, non dico di quella affettiva ma dei legami, lei si pone nella condizione di incontrare l'altro, con la possibilità che non sia un nemico. Ma è un punto importante, me lo faccia chiarire bene».

Faccia pure.

«Parto dalle cose che conosco bene, dai matti. Il delirio è una visione alterata della realtà, per cui viene interpretata in maniera assolutamente anomala: un giovane con delirio di persecuzione, se la madre gli offre un bicchiere d'acqua, vedendolo accaldato, penserà che lo vuole avvelenare. Fino a prenderla a schiaffi, se insisterà».

Vede lo stesso sintomo in giro?

«Vedo lo stesso sintomo seppure di dimensione minore: una condizione di tale sfiducia, di tale negazione dell'altro, che si riesce a buttare via anche la persona che poteva aiutarci, a fare cose importanti. Come il delirante, che non poteva capire come la madre volesse dargli dell'acqua e non del veleno».

Andiamo avanti, professore.

«Non crediamo in Dio. Ne parlo da veneto: Dio era un attaccarsi alle speranze e non c'è più. Nella mia Verona, trent'anni fa alla messa ci andava l'80 forse il 90 percento degli abitanti, nell'ultima statistica siamo al 15-16. Si credeva nel Padreterno e non si crede più. E si pensa che i preti siano anche pedofili e nessuno manda più il proprio figlio in parrocchia. Il delirio è una visione errata della realtà, una cattiva interpretazione».

Ma i pericoli ci sono.

«È vero, ci sono i pericoli; è vero, il denaro è tutta carta e non vale nulla, ma ci sono anche molte persone oneste. Ci sono i tuoi figli che, tutto sommato, vanno ancora a scuola, anche se tu continui a dirgli che non serve a niente, che andare all'università non darà loro delle chance, che poi, fra dieci anni, non riusciranno a fare quello che volevano».

Siamo adulti cinici, insomma.

«Certo, gli ammazziamo il futuro. Bisogna dire ai giovani di andare a scuola, di partecipare, di imparare, oggi per oggi. Non è la questione di quello che saranno fra 10 anni. Che frequentino intanto un corso di laurea, oggi, e sentiranno una lezione di un professore bravo, incontreranno qualcuno di interessante. Capisce che è una visione del mondo?».

Altro, professore?

«Non ridiamo più. E non mi dica anche lei che è una stupidaggine, eh».

Ci mancherebbe.

«Per strada, se vedono uno che se la ride, lo ricoverano».

(Risata dell'intervistatore).

«Lei ride? È così! Pensi che siamo l'unica specie vivente che può ridere. Non c'è nessun altro animale, neppure gli scimpanzé. E per farlo dobbiamo attivare una trentina di muscoli facciali. Ma non lo facciamo più, quando ridiamo lo facciamo in maniera sguaiata, che è già un segnale di far paura».

 

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