Fine pena: ora di Elvio Fassone

La bellissima storia del giudice e del pluriomicida che condannò

La bellissima storia del giudice e del pluriomicida che condannò
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Spesso, e non sempre a torto, piovono critiche e polemiche nei confronti della magistratura italiana, accusata di essere talvolta politicizzata, talvolta autoreferenziale, talvolta adagiata sui propri privilegi. Ma capita anche di sentire storie che certificano grande umanità e vicinanza alle sorti degli imputati. È il caso del giudice penale Elvio Fassone, che nel libro Fine pena: ora, edito da Sellerio, racconta lo stretto rapporto instauratosi fra lui e Salvatore M., pluriomicida condannato dallo stesso Fassone a 26 anni di carcere. Una storia vissuta attraverso una stretta corrispondenza epistolare durante gli anni di detenzione di Salvatore.

Il processo. Elvio Fassone, che è stato fra l'altro anche senatore con l'Ulivo a inizio anni Duemila, era magistrato a Torino durante gli anni del maxiprocesso per mafia del 1986-1987 a Palermo, nell'ambito del quale anche nel Nord Italia vennero coinvolte 242 persone, poste a giudizio proprio di fronte alla Corte d'Assise del capoluogo piemontese. L'incarico di presiedere venne offerto a Fassone, il quale accettò. Tra i tanti imputati che gli sfilarono davanti in quel periodo, figurò anche Salvatore, legato alla Cosa Nostra catanese e con sulle spalle accuse per 15 omicidi: un curriculum penale che, dirà poi Fassone, «si misurava a spanne».

 

 

Lo scontro in aula fu duro. Ma poi arrivò la svolta che avrebbe portato all'inizio di questo scambio di lettere unico, e che Fassone racconta così: «Ogni giorno, a fine udienza, mi fermavo in ufficio per ricevere mogli, madri, parenti degli imputati. Li ascoltavo, li aiutavo se chiedevano il permesso per incontrare i detenuti. Si era arrivati a una mediazione importante: i detenuti avevano spesso processi in altri tribunali d'Italia, ma questo significava che ogni volta avremmo dovuto interrompere il processo a Torino, e chissà quando avremmo finito. Ebbene, noi giudici ci eravamo impegnati nei giorni nei quali loro erano assenti a non trattare i reati che li riguardavano». Scelte che, nel pieno rispetto dei dogmi processuali, instaurarono un rapporto perlomeno di umanità tra Fassone e alcuni imputati, in particolare con Salvatore, che nonostante la pesantissima pena (26 anni) volle rimanere in contatto, anche dal carcere, con quel magistrato il cui comportamento tanto lo aveva colpito.

Il rapporto epistolare. Fin dal primo giorno di detenzione di Salvatore, fra lui e Fassone iniziò un fittissimo scambio di lettere (saranno 1.300 a fine pena). Grazie al libro pubblicato dal giudice è possibile leggere alcuni stralci della corrispondenza fra i due. Scrisse, per esempio, un giorno Salvatore: «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso sarebbe stato lui nella gabbia. Se io nascevo dove è nato suo figlio, forse ora farei l’avvocato». Una frase che non si dimentica. «Salvatore», dice oggi Fassone, «nella lotteria della vita ha preso il biglietto che porta nella tomba dei vivi».

 

 

Nel libro, ogni racconto prende il via da una frase scritta da Salvatore, che le carceri d’Italia le conosce pressoché tutte. C'è una lettera in cui parla del primo bagno al mare, dopo 23 anni di detenzione: «È stato fantastico, qui l’isola è veramente bella, in certi momenti sono persino un po' felice». In altre pagine racconta quando la compagna, Rosi, che l'aveva seguito nei suoi spostamenti, lo lascia: «Non c’è dolore che io non conosca, ma questo è stato il più grande di tutti». Replica in un passaggio il giudice: «Il ricordo di una gioia passata non è più gioia, ma il ricordo di un dolore è ancora sempre dolore». Un rapporto dunque che si stringe per il solo viatico della penna e della carta, e in cui Salvatore ammette anche alcune scelte sconsiderate e dettata dalla disperazione che aveva preso in carcere: «L'altra settimana ne ho combinata una delle mie. Mi sono impiccato. Mi scusi». Sarebbe stato salvato dal pronto intervento di un agente di custodia.

Fassone, nel corso degli anni, si è anche impegnato a rendere più umana la pena di Salvatore, al di là delle sole lettere: gli permise, per esempio, di andare a trovare la madre mentre quest'ultima era in punto di morte. «Questa vicenda», spiega Fassone nel primo capitolo, «ha un particolare che credo la differenzi dalle altre. All'inizio della storia c'è qualcosa che l'ha messa in moto, qualcuno che ha pronunciato la condanna di Salvatore all'ergastolo, che ha spalancato i cancelli destinati a rinchiuderlo per sempre. Ebbene, l'uomo che ha segnato la sua vita e poi, in qualche misura, lo ha accompagnato per ventisei anni, sono io».

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