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La lettera di un figlio al padre in ospedale: «Ti porterò a pescare». E ora Mario sta meglio

Ricoverato dal 10 marzo al Policlinico: «Ho visto la disperazione. Gente che urlava, che dava in escandescenze. Mi hanno salvato per un pelo». «Le infermiere si aiutano, fanno squadra. Sono dei veri eroi». La lettera del figlio: «Quante ne abbiamo passate insieme... nemmeno riesco a ricordarle tutte, e quante ne passeremo ancora quando uscirai»

La lettera di un figlio al padre in ospedale: «Ti porterò a pescare». E ora Mario sta meglio
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di Laura Ceresoli

Oggi Mario Corni sta meglio. Sono trascorse ormai tre settimane da quando febbre alta, tosse e fiato corto avevano iniziato a prendere il sopravvento sul suo fisico in maniera inesorabile. A ripensarci sembra passata un'eternità, viste le giornate tese e concitate che si sono susseguite. Questo papà 59enne di Ponte San Pietro si è ritrovato all'improvviso in un letto d'ospedale a lottare, insieme ad altre centinaia di pazienti, per la vita. Ora che il peggio è passato vuole raccontare la sua esperienza, consapevole che, dopo questo lungo calvario, nulla sarà più come prima.

«Sono al Policlinico San Pietro per Coronavirus dal 10 marzo - racconta Corni -. Tutto è cominciato una settimana prima del ricovero con una semplice febbre. Il medico mi curava per influenza ma dopo otto giorni avevo ancora febbre a 38,5-39 e non si abbassava neanche con la Tachipirina. A quel punto ho chiamato il 112. Con molta professionalità, il personale mi ha portato al pronto soccorso dove c'erano altre persone che, come me, avevano lo stesso problema. Eravamo tutti stesi sulle barelle in attesa di essere seguiti dai medici. Era da giorni che non mangiavo e bevevo. Uno dei primi sintomi è che non senti più i sapori e perfino l'acqua sembra amara».

Mario Corni. In apertura, a pesca con i figli in una foto di qualche anno fa

Mentre Mario aspettava il suo turno, sentiva il suono assordante delle ambulanze. Ne arrivava una ogni 10 minuti e la corsia pian piano cominciava a riempirsi: «Nel pronto soccorso mi sembrava di essere in un girone dantesco - prosegue Corni -. Vedevo la disperazione, la paura. Giunto il mio turno, il medico mi ha fatto le solite domande di routine: chi sei, quanti anni hai, hai delle patologie. Da qui è iniziata tutta la trafila: esami del sangue, tampone, radiografie... Avevo la polmonite. Mi hanno quindi portato nel reparto interno del pronto soccorso dove già c'erano una decina di pazienti, ognuno nel suo letto ma in una camerata unica. Hanno cominciato a farmi prelievi, ad attaccare flebo di ogni tipo, dall'antibiotico alla Tachipirina. Tutto girava in modo ordinato e coordinato come un'orchestra: c’era chi dirigeva e c’era chi eseguiva. Nessuno faceva le cose due volte, tutti erano al loro posto, tutti sapevano quello che dovevano fare. E devo dire che è proprio in quel momento che mi hanno preso per i capelli e mi hanno salvato, con tutti gli esami che mi hanno fatto, con la loro pazienza. C’era gente che urlava, gente che per la febbre dava in escandescenze, ma le infermiere si sono sempre dimostrate all'altezza della situazione».

I gemelli Simone (a sinistra) e Angelo, 25 anni, figli di Mario Corni

Quando ormai la febbre era sotto controllo, Mario è stato trasferito nel reparto degenza: «Voi che siete fuori e state bene non riuscite a capire la paura che abbiamo noi degenti. Qua si esce in due modi: lascio a voi immaginare». Mario intanto si tiene in contatto con amici e parenti tramite il cellulare. Commovente è stato il messaggio che il figlio Simone di 25 anni gli ha voluto dedicare il 19 marzo scorso, festa del papà: «Ciao Babbo. Mio grande maestro di vita e ottimo compagno di avventure. Quante ne abbiamo passate insieme... nemmeno riesco a ricordarle tutte, e quante ne passeremo ancora quando uscirai da quella stanza d’ospedale. Ormai so che stai meglio e che sicuramente guarirai perché sei un guerriero. Ti vedo come Alberto da Giussano (che so che hai sempre ammirato) con lo scudo e lo spadone, sempre pronto a difendere la propria famiglia e i propri ideali. Per questo dentro di me so che ce la farai. Ne uscirai vincente. E finalmente riusciremo a toglierci questo peso sulle spalle. Quando tutta questa storia finirà, vederti, per me, sarà la prima cosa da fare. Ti caricherò in macchina e ti porterò finalmente a pescare. Come hai sempre fatto tu con me. Andremo finalmente a fare quello che mi hai sempre insegnato fin da piccolo, quello che ci fa stare bene, che ci fa divertire, e ci libera da ogni pensiero. In pratica la nostra più grande passione, ciò che amiamo. Volevo cogliere l’occasione per ringraziarti anche se so che avrò modo di farlo personalmente tra qualche settimana».

L’articolo completo e altre notizie su Ponte San Pietro nel numero di PrimaBergamo in edicola dal 27 marzo.

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