L'attacco del Papa al clericalismo e la via delle "poche minime cose"
Papa Bergoglio ha colpito ancora. Nel breve discorso tenuto nel corso dell’udienza ai partecipanti all’Incontro Internazionale "Il progetto pastorale di Evangelii gaudium” ha detto: «Davanti a tante esigenze pastorali, davanti a tante richieste di uomini e donne, corriamo il rischio di spaventarci e di ripiegarci su noi stessi in atteggiamento di paura e difesa. E da lì nasce la tentazione della sufficienza e del clericalismo, quel codificare la fede in regole e istruzioni, come facevano gli scribi, i farisei e i dottori della legge del tempo di Gesù».
Parole terribili per tanti teologi e uomini di chiesa. Ma importanti per il papa, che ha proseguito: «Avremo tutto chiaro, tutto ordinato, ma il popolo credente e in ricerca continuerà ad avere fame e sete di Dio. Ho detto anche alcune volte che la Chiesa mi sembra un ospedale da campo: tanta gente ferita che chiede da noi vicinanza, che chiede da noi quello che chiedevano a Gesù: vicinanza, prossimità. E con questo atteggiamento degli scribi, dei dottori della legge e dei farisei, non daremo mai una testimonianza di vicinanza».
Era in certo senso inevitabile che queste parole fossero lette come una risposta, seppure indiretta, alle posizioni espresse in questi giorni da un gruppo di cardinali e studiosi guidato dal prefetto della congregazione per la dottrina della Chiesa cardinal Mueller. Ma se pure questa è l’occasione, il segnale che ha dato il papa va molto più in profondità e viene da molto più lontano. Risale ai tempi della sua formazione.
Nel corso della famosa intervista alla Civiltà Cattolica, laddove il papa accenna alle «epoche nella Compagnia [di Gesù] nelle quali si è vissuto un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che mistico» il direttore padre Spadaro sente il bisogno di precisare che «Per il Papa, durante questo periodo nella Compagnia le regole hanno rischiato di sopraffare lo spirito, e ha vinto la tentazione di esplicitare e dichiarare troppo il carisma».
Dunque non è da oggi che il papa ha in mente i danni provocati da una eccessiva insistenza sul carisma, ossia concentrato propria specificità all’interno della Chiesa. Questo modo di pensare, tutto concentrato su se stessi, può essere molto pericoloso, ha detto il papa: «Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi». Nel tempo che scorre al di fuori di noi. E questo perché? Perché il Signore non sta fuori del tempo, ma nella quotidianità della vita. «Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa».
“Avviare processi” significa introdurre nella storia modi nuovi e più umani di vivere le circostanze che ci sono date, tentare risposte ai bisogni che rendano visibile, con tutta la fragilità che ogni inizio necessariamente comporta, il bene che l’incontro con Cristo può generare. Non si tratta, dice il papa, di pensare grandi strategie. Si comincia da dove si è e dalle persone con cui si ha a che fare. O meglio: «Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che risultano più efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi».
Le “poche minime cose” sono quelle che interpellano la Chiesa costringendola a chinarsi sul bisogno dell’uomo che varia nella storia e a seconda dei luoghi in cui si esprime. Ancora l’intervista: «Del resto, in ogni epoca l’uomo cerca di comprendere ed esprimere meglio se stesso. E dunque l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso: una cosa è l’uomo che si esprime scolpendo la Nike di Samotracia, un’altra quella del Caravaggio, un’altra quella di Chagall e ancora un’altra quella di Dalí. Anche le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile».
Presentarsi al prossimo Sinodo con questo pensiero significa entrarvi col desiderio di trovare la forma di espressione più adatta per trasmettere all’uomo di questo tempo (chi mettiamo dopo Dalì? Robert Rauschenberg? Gerhard Richter?) il messaggio evangelico nel suo significato immutabile. Ossia per consentirgli l’esperienza della misericordia di Dio a riguardo di tutti e di ciascuno.