Le notti di Sergio Zambelli a scaricare i camion per pagare l'affitto del suo bar
Nei giorni della chiusura è andato a dare una mano per costruire l’ospedale della Fiera e ha lavorato al mercato ortofrutticolo. «Se mi sono pentito della scelta? Sì, di non aver aperto all’estero. I miei colleghi hanno ricevuto subito aiuti. Qui ci sono i debiti»
di Monica Sorti
Quando Sergio Zambelli, a ottobre dello scorso anno, ha cominciato la sua avventura all’Iron & Wine del Centro Commerciale «Le Vele», non si aspettava di certo che, di lì a breve, ci sarebbe piombata addosso la pandemia del secolo. Per lui, ventisettenne con già alle spalle una lunga esperienza dietro al bancone del bar, questa era una splendida occasione. Ha preso la palla al balzo e ha cominciato carico di ottimismo e di belle speranze, che sono poi state spazzate via dal lockdown.
«Mi sono buttato con entusiasmo in questa avventura e devo dire che il bar, prima del coronavirus, funzionava molto bene». Funzionava a tal punto che Sergio aveva assunto cinque persone a tempo indeterminato, due delle quali part time. «Servivano cinque dipendenti perché il bar deve stare aperto 7 giorni su 7, essendo all’interno del centro commerciale». Ma cosa ha spinto Sergio a compiere un passo così importante? «Ho sempre fatto le mie 12 ore al giorno e farne tre in più per me andava bene. Prima di questa problematica, soprattutto nei weekend, lavoravamo davvero tanto».
Adesso una parte dei dipendenti è in cassa integrazione. Durante la chiusura del locale non è rimasto con le mani in mano. È stato uno dei volontari che hanno contribuito alla realizzazione dell’ospedale della Fiera di Bergamo. E ha continuato a darsi da fare per tutto il periodo del lockdown. «Fortunatamente, perché a casa da solo sarei impazzito». Per il mese successivo ha trovato lavoro al mercato ortofrutticolo di Bergamo, scaricava i camion di frutta dalle 2 di notte alle 11 di mattina. «L’affitto qui era da pagare e in quel periodo erano in pochi quelli che facevano lavorare. Oltre a scaricare i banchi dai camion che arrivavano, c’era da organizzare gli ordini per il clienti che passavano a ritirare la merce e caricarla sui loro camion. Un lavoro di muletto e braccia».
Chiediamo a Sergio se non si è mai pentito di aver fatto questa scelta. «Sì, non per l’impegno che ci sto mettendo, ma per come lo Stato ha trattato la questione. Sono pentito di non essere andato all’estero a fare la stessa cosa. Ho degli amici che sono partiti sette anni fa e che hanno aperto a Berlino, Nizza e Formentera. Tutti, dallo Stato, appena hanno chiuso la serranda, hanno avuto dei soldi a fondo perduto. In Italia non è accaduto. Da parte mia l’entusiasmo c’è, ho delle ragazze molto volenterose che mi stanno dando una grande mano, il locale è bello, credo molto in questo progetto. Siamo una squadra giovane e ce la metteremo tutta. Adesso siamo solo in attesa della clientela. Intanto ci sono i debiti, perché durante il lockdown comunque i costi fissi sono rimasti. Speriamo che lo Stato ci dia una mano, anche se attualmente non abbiamo visto ancora nulla di concreto».