Insieme a tre amici

La grande impresa di Lola Delnevo in vetta a El Capitan senza gambe

La grande impresa di Lola Delnevo in vetta a El Capitan senza gambe
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Eleonora “Lola” Delnevo ha 37 anni e abita ad Albino da pochi mesi. Laureata in Scienze ambientali, è originaria di Arcene. Si è avvicinata alla montagna durante gli studi universitari, prima con semplici escursioni, poi al mondo dell’arrampicata e dell’alpinismo, scalando sulle Orobie e sulle Alpi diverse vie tra ghiaccio e roccia. Il 19 marzo 2015, durante l’ascesa a una cascata di ghiaccio in val Daone con due compagni di cordata, un blocco di roccia e ghiaccio si è staccato, trascinando tutto il gruppo per un trentina di metri. La diagnosi per l’alpinista bergamasca è stata chiara: colonna vertebrale spezzata. Lola non si è mai fermata e ricoverata prima a Trento, poi a Mozzo, vicino a casa, ha iniziato un’intensiva riabilitazione che in pochi mesi l’ha portata a tentare la prima ascesa a El Capitàn, conclusa poi alcune settimane fa. Una vita sempre a mille, prima e dopo l’incidente. Oggi tanto sport, kayak e pallacanestro in carrozzina con il gruppo SBS Bergamo, anche se la sua vera grande passione è rimasta la montagna. Lo si capisce subito, basta chiederglielo e aspettare il suo sorriso. Come spiegazione basta e avanza.

 

[Lola Delnevo e Diego Pezzoli]

 

Prendiamo la Yosemite Valley, in California, paradiso del climbing da generazioni. Prendiamo El Capitan, colosso di granito, una parete dai quasi mille metri d’altezza, icona per tutti gli appassionati di arrampicata del mondo. Un monolite di roccia sul quale sono state aperte più di settanta vie d’ascesa, che arrivano a toccare il nono grado di difficoltà, il più difficile in questa disciplina. Infine prendiamo una ragazza con un sogno, una grande motivazione e una forza d’animo non comune. L’unione di tutti questi fattori dà vita al racconto di Eleonora “Lola” Delnevo, 37enne di Albino, paraclimber con l’amore per la montagna, l’arrampicata e la libertà. Una passione, la sua, che non l’ha mai fermata, nemmeno dopo l’incidente avvenuto nell’inverno del 2015 che l’ha costretta su una sedia a rotelle. Poche settimane fa, Lola, con il solo aiuto delle proprie braccia e dei compagni di cordata, ha salito la via "Zodiac", una tra le più impegnative del globo. Un’impresa considerata per pochi. Siamo andati a trovarla a casa sua e con Diego Pezzoli, compagno di cordata, ci ha raccontato della sua scalata a El Capitan.

Lola, da dove nasce la sua passione?
«Ho iniziato i primi approcci alla montagna durante l’università, all’inizio con semplici escursioni. In seguito, mossa dalla curiosità verso l’arrampicata, ho partecipato a un corso al Cai di Treviglio. In meno di un anno si è formato un primo gruppo di amici di Treviglio con cui ho iniziato a "rampare" sulla Grigna, poi sulle Orobie. Dieci anni fa ho conosciuto Diego Pezzoli e Mauro "Gibe" Gibellini e con loro ho affrontato scalate più difficili e tecniche».

Fino ad arrivare all’incidente...
«Si, esatto. A marzo 2015 ero in Val Daone con altri due amici scalatori. Stavamo risalendo una cascata di ghiaccio quando improvvisamente è crollata, trascinandoci per parecchi metri. Nella caduta mi sono spezzata la colonna vertebrale. La convalescenza è stata lunga e mi ha costretto a rimanere in ospedale fino a metà luglio. Poi ho iniziato la riabilitazione».

Chiunque si sarebbe arreso, invece a lei è venuta l’idea di conquistare El Capitan.
«No, la pazza idea dello Yosemite non è mia: è venuta a Diego e Gibe mentre io ero in ospedale. Me l’ha proposta Diego l’ultimo giorno di ricovero. La via Zodiac era già stata percorsa da climber con problemi di paraplegia, questo grazie alla sua parete strapiombante verso l’esterno, che permette un’ascesa non a ridosso della roccia. Con questo tarlo nella testa, fin da subito ho sentito un preparatore atletico e nell’inverno successivo ero in palestra. La motivazione c’era e volevo tornare ad arrampicare e a vivere le emozioni in parete».

Nel 2016 c’è stato il primo tentativo...
«Una prima spedizione era stata organizzata in settembre. Dei quindici tiri di corda presenti sulla parete ci siamo fermati al quinto».

Cos’è un tiro di corda?
«Un tratto di via su roccia che parte da terra (o da una sosta) e segna un percorso lungo la parete, terminando a un punto di fermata e ancoraggio. Eravamo solo in tre e l’ascesa in parete era stata più lunga del previsto. Lì abbiamo capito che per riuscire a completare l’impresa saremmo dovuti essere in quattro».

Quindi siete tornati a casa ma non avete mollato.
«Assolutamente no. Lo stop era stato temporaneo. Appena arrivati a casa abbiamo iniziato a riprogettare la salita, includendo nel progetto anche Gibe, che alla prima occasione non aveva potuto essere dei nostri, nonostante fosse un’idea sua e di Diego. Un motivo in più per ritornare e concludere l’impresa. Il 2017 è stato speso nella raccolta dei fondi, nella preparazione e nell’individuazione del quarta persona».

La scelta è caduta su...?
«Ci siamo rivolti ad Antonio Pozzi, esperto scalatore di Zurigo. Antonio si è rivelato il compagno perfetto sia per tecnica che per tenacia: prima di partire aveva già studiato ogni passaggio della via. Se abbiamo raggiunto la vetta in tre giorni il merito è suo, che ha percorso quasi tutti i quindici tiri di Zodiac come primo di cordata».

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Ci racconti la spedizione.
«Il 28 settembre Diego e Antonio hanno attrezzato i primi cinque tiri di Zodiac, posizionando le corde che sarebbero servite il giorno successivo. Praticamente gli stessi tiri che avevamo percorso nel 2016. La sera stessa, Gibe ha risalito il tratto di via già attrezzata e ha issato i due sacchi contenenti il materiale necessario per l’arrampicata in parete, che avrebbe potuto protrarsi per tre giorni o anche di più. Un lavoro non da poco, visto che la prima sosta si trovava a cento metri d’altezza. Io nel frattempo sono rimasta al campo base».

E siamo al 29 settembre.
«Siamo partiti tutti insieme. Ho preparato il mio imbraco, che naturalmente è diverso rispetto a quello che si usa in arrampicata. All’altezza della vita ne utilizzo uno da scialpinismo, che serve da sicurezza, mentre per la salita utilizzo l’imbrago ultraleggero da parapendio, che rispetto a quello da alpinismo mi permette di tenere sollevate la gambe e distribuire il peso. Avevo parlato con una ragazza francese, Vanessa Francois, anche lei paralizzata e artefice di una salita a Zodiac nel 2013. Mi aveva dato tantissimi consigli».

Dove siete arrivati il primo giorno?
«Abbiamo risalito tutti i cinque tiri precedentemente attrezzati, andando via lisci e veloci. A fine giornata Diego e Antonio hanno attrezzato i due tiri successivi, preparando la via per giorno dopo».

E avete dormito in parete.
«È sempre bellissimo, mi creda, ma non è stato facile. Lo chieda a Diego. Noi avevamo due tende in alluminio ancorate alla montagna. I ragazzi le issavano a ogni tiro di corda, in modo da lasciarmi un posto sicuro e comodo dove fermarmi in attesa che venisse attrezzato il tiro successivo».

Siamo al secondo giorno in parete.
«La giornata è andata un po’ per le lunghe, sia per la difficoltà di alcuni passaggi che per la lunghezza dei tiri, che avevano punti di sosta lontani tra loro. La sera del 30 settembre si è conclusa in parete al nono tiro. Una notte di riposo, poi sono iniziate 24 ore di scalata».

Perché la decisione di concentrare tutto in un ultimo sprint?
«Purtroppo il meteo dava peggioramento nella giornata di martedì 2. Così il primo ottobre ci siamo svegliati alle cinque e abbiamo deciso di fare questa “volata”. Abbiamo arrampicato fino al dodicesimo tiro e il sole stava tramontando. Ci siamo fermati vicino a una bellissima cencia e inizialmente abbiamo pensato di dormire lì, ma le previsioni di sicuro peggioramento ci hanno convinto a proseguire. Gli ultimi tiri sono stati fatti completamente al buio, alla luce delle lampade frontali e con Antonio in testa, che è stato bravissimo ad attrezzare l’ultimo tratto di ascesa».

Come è stato usciti dalla via?
«Io ero stanchissima, sono arrivata alle cinque del mattino del 2 ottobre, ormai distrutta ma felicissima. Non sono mancati i momenti di commozione e gli abbracci. Il meteo però voltava al peggio, iniziava il diluvio, si doveva recuperare il materiale e pensare al rientro».

La discesa?
«Il ritorno avviene da un sentiero, ripido e scosceso, che presenta dei passaggi su placche molto lisce. Noi avevamo già preso accordi con i ragazzi del soccorso, che avrebbero dovuto aiutarci nell’ultimo tratto di discesa. Purtroppo quella stessa notte c’era stato un intervento per un incidente molto grave e i volontari erano quasi tutti impegnati. Improvvisamente vediamo delle luci scendere dalla vetta di El Capitan. Erano due ragazzi che avevano appena concluso la salita di "The Nose", altra via che porta direttamente in cima. Loro avevano una branda singola e abbiamo pensato di usarla per trasportarmi lungo il sentiero. Quindi, con me infilata nel sacco a pelo e legata a questa “barella d’emergenza”, abbiamo iniziato la discesa, che è stata comunque lunga e difficoltosa».

 

[L'arrivo dopo la scalata]

 

Quali sono stati i momenti più intensi di questa scalata?
«In parete, ripartire dalla tenda... Per alcuni secondi mi ritrovavo nel vuoto e il movimento era quello del pendolo, giusto per capirsi. Una sensazione che durava pochi attimi e naturalmente in sicurezza, ma che non era assolutamente piacevole. Per me non è semplice come fare un salto, dovevo aspettare il momento buono, issarmi sulla corda e lasciarmi andare nel vuoto. Una cosa è farlo ai primi tiri, ma quando sei appesa a trecento metri sulla parete cambia tutto».

Chi vi ha aiutato nell’impresa?
«In primis gli amici presenti al campo base, con cui comunicavano attraverso le radioline. Un altro grande aiuto è arrivato dal team di Timmy O’Neil, climber californiano leggenda della Yosemite Valley. Io ero già in contatto con lui dal 2016. Mi ha aiutata a raggiungere l’attacco della via, proprio al di sotto della parete. Il sentiero per raggiungere El Capitan parte inizialmente pianeggiante, ma poi si trovano rocce e passaggi inadatti all’uso della carrozzina. I ragazzi del team di O’Neil hanno preparato una sorta di portantina con una ruota gigante che permette di procedere senza mai alzare la barella. Un’idea geniale! Il loro entusiasmo mi ha dato la carica necessaria per affrontare la salita».

Siamo tornati a casa Lola, i prossimi progetti?
«Alt. Adesso pausa! Visto che faccio anche kayak, i progetti non mancano, la voglia di metterli in pratica nemmeno. Vedremo».

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