nel bicentenario della nascita

Con una madre così (Margherita) si diventa San Giovanni Bosco

Con una madre così (Margherita) si diventa San Giovanni Bosco
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Vediamo un po’. Ammettiamo che siate poveri di quella povertà che più opportunamente si chiamerebbe miseria nera. E che inoltre abbiate tre figli da tirar su - due vostri e uno ereditato da un precedente matrimonio - visto che il vostro coniuge si è preso una polmonite che se l’è portato via nel giro di qualche giorno. E ammettiamo anche che a uno di questi ragazzi, il diciannovenne Giovannino, a forza di star seduto di fronte all’immagine della Madonna delle Grazie sita in Chieri (TO), sia venuto in mente di farsi frate francescano. E aggiungiamo pure che il parroco di quella chiesa - tale don Dassano - sia venuto fin da voi, su in collina, ad avvertirvi delle pericolose inclinazioni del vostro figliolo dicendovi: “Cercate di allontanarlo da questa idea. Voi non siete ricca e siete avanti negli anni. Se vostro figlio va in convento, come potrà aiutarvi nella vostra vecchiaia?”.

Ebbene voi, in questa ipotesi, siete proprio sicuri (o sicure) che andreste dall’incriminato a fargli un discorso come quello che riportiamo qui di seguito?

“Il parroco è venuto a dirmi che vuoi entrare in convento. Sentimi bene. Io voglio che tu ci pensi e con calma. Quando avrai deciso, segui la tua strada senza guardare in faccia nessuno. La cosa più importante è che tu faccia la volontà del Signore. Il parroco vorrebbe che io ti facessi cambiare idea, perché in avvenire potrei avere bisogno di te. Ma io ti dico: in queste cose tua madre non c’entra. Dio è prima di tutto. Da te io non voglio niente, non mi aspetto niente. Io sono nata povera, sono vissuta povera, e voglio morire povera. Anzi, te lo voglio subito dire: se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco non metterò mai più piede in casa tua. Ricordatelo bene”.

Se rispondete in modo affermativo non potete essere altro che il padre (o la madre, in questo caso) di san Giovanni Bosco. O di un altro, ma comunque di un santo.

Dice che la famiglia non conta. Conta, datemi retta.

 

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Adesso facciamo un’altra ipotesi. Non siete diventati francescani. Avete scelto di diventare prete diocesano e avete lasciato la campagna per andare a prestare la vostra opera alla periferia di una grande città. In una banlieue, come si dice oggi. Avete anche messo su un oratorio che funziona col catechismo e tutto. A questo punto, pensate che vi verrebbe davvero voglia di andare in giro - che so? - a Porta Palazzo e in piazza San Carlo (centri di delinquenza urbana consolidata e certificata) per andare a tirar su tutti i manovali minorenni, gli stuccatori occasionali pagati in nero, i bambini impiegati a posar pietre per le strade, gli immigrati (anche questi rigorosamente minorenni e senza nessuno a difenderli) per prendervi cura di loro?

Bene, fareste soltanto il vostro dovere. Ma se poi vedeste che, fra tutta questa gioventù sfruttata e abbandonata, c’è un gruppetto messo ancora peggio - i piccoli spazzacamini - perché costantemente fatti oggetto di bullismo, pensate che vi fareste carico anche di loro, prendendone le difese? Bene. Vi state avvicinando a quel che fece don Giovanni Bosco, nato in frazione Becchi di Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, addì 16 agosto 1815.

E non gli bastava, tutta questa attività? No. Non gli bastava. Assieme a un altro prete, l’anziano don Cafasso che conosceva dai tempi in cui stava ancora al paese, decise che forse bisognava anche andare a vedere come se la passavano i ragazzi nelle carceri torinesi.

E scoprì che se la passavano non malissimo. Molto peggio che malissimo. Li trovò - erano ragazzi dai 12 ai 18 anni - con la tigna, la scabbia, con gli insetti che banchettavano sulle loro piaghe, mentre loro consideravano un dono prezioso persino il pane raffermo. E così don Bosco andò a trovarli settimana dopo settimana, cercando di portar loro da mangiare e facendoli divertire coi giochi di prestigio che aveva imparato da ragazzo e con qualche numero da circo che pure aveva appreso anni prima. Non aveva il braccialetto rosso né la pallina da clown sul naso - tutte cose che sarebbero venute di moda un secolo dopo - ma era comunque uno spasso davvero spassoso, tanto che dopo un po’ quei ragazzi decisero di raccontargli tutto di sé e della loro vita. Don Giovanni capì allora che se non li avesse presi in carico lui, questi delinquenti, si sarebbero persi del tutto e si fece promettere che usciti che fossero di galera, sarebbero andati a trovarlo in oratorio. (Una domenica riuscì anche ad ottenere dal direttore il permesso di portarli fuori, in campagna. Non ne perse uno. Per grazia di Dio, immaginiamo).

Alla fine andò che la seconda domenica di ottobre del 1844 l’oratorio si trasferì dalla Chiesa di  San Francesco d’Assisi al Rifugio, una casa messa a disposizione dalla marchesa Giulia Colbert Falletti di Barolo, dove ci si prendeva cura delle ragazze per le quali si apriva soltanto la luminosa strada della prostituzione minorile prima e adulta poi. “Minorile” vuol dire che nella casa erano ospitate ragazze dai 7 ai 14 anni, molte delle quali già battevano il marciapiede.

La marchesa aprì anche un altro centro d’accoglienza - questa volta per le bambine povere e diversamente abili (ma allora non si chiamavano così: erano semplicemente dette infelici) - e ovviamente affidò pure queste a don Bosco, che venne così ufficialmente nominato Cappellano dell’Ospedaletto di Santa Filomena.

D’accordo le bambine: ma gli altri? Giusto: gli altri diventavano ogni giorno più numerosi, al punto che don Bosco - per dar loro un posto in cui vivere in maniera più o meno regolare - prese in affitto una cascina ("casa Pinardi”) dotata di tettoia e di prato nel quartiere Valdocco di Torino. Il prato gli venne poi tolto, mentre i debiti continuavano ad aumentare e la fame dei ragazzi anche. E allora questo prete dalla testa lucidissima ma dal fisico un po’ provato si mise a bussare a tutte le porte in cerca di altri fondi.

La prima a farsi viva fu - come avrebbe potuto essere altrimenti? - la madre che gli aveva fatto quel discorsino: mamma Margherita. Che vendette tutto quel che aveva per poter dare da mangiare ai figli di suo figlio. Lo abbiamo già scritto, ma lo ripetiamo volentieri: poi dice che la famiglia non conta.

A questo punto bisognerebbe parlare della fondazione dei Salesiani - così chiamati in onore di Francesco di Sales, il grande gesuita evangelizzatore dell’Asia. Dovremmo parlare delle suore di Maria Ausiliatrice, le salesiane femmine. Ma preferiamo raccontare un’altra cosa, e cioè di come alcuni dei suoi ragazzi gli chiesero di poter “diventare come lui”.

E lui li prese in parola. Nell'estate del 1856 scoppiò in città - a Torino -  un'epidemia di colera che imperversò soprattutto nella zona di Valdocco. Il prete radunò quarantaquattro giovani per soccorrere gli ammalati. Fra loro uno poco più che bambino, Savio di cognome e Domenico di nome. Un adolescente da immaginetta, bravissimo, che si prodigò instancabilmente fra i colerosi. Purtroppo si beccò il colera anche lui e morì, il 9 marzo 1857, tra le braccia dei suoi. Che - miracolo - non fecero causa a quel prete incosciente che aveva mandato i ragazzi a prendersi il vibrione. Non gli fecero causa perché - altro miracolo - nessuno dei ragazzi di Valdocco fu raggiunto da quel male, come era stato loro promesso. Domenico se l’era dunque preso il Signore perché ne aveva bisogno.

Sì: ma non ci poteva pensare lo Stato, il ministero della Sanità, a contrastare l’epidemia? Sì. Lo Stato. Aspetta te che arrivi, lo Stato. Con la guerra da fare all’Austria, e Cavour, e la massoneria, e Garibaldi che voleva la repubblica, e Mazzini ch’era scappato, e tutto il resto, pensate davvero che Vittorio Emanuele II di Savoia, re di Sardegna e poi d’Italia, col suo cavallo e i suoi baffi, avesse anche il tempo di occuparsi di queste sciocchezze?

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