Meriam è libera e sbarcata a Roma
Meriam Yahia Ibrahim Ishag, condannata a morte in Sudan per apostasia, è atterrata questa mattina all’aeroporto di Ciampino, a Roma, insieme al marito Danel Wani e ai due figli, Martin e la neonata Maya. Li ha accompagnati, sul volo della presidenza del consiglio, il viceministro degli Esteri, Lapo Pistelli, che da tempo seguiva il caso e che ha collaborato con le autorità americane per la liberazione della donna. La famiglia è stata accolta dal primo ministro, Matteo Renzi, dalla moglie Agnese e dal ministro degli Esteri Federica Mogherini, che ha dichiarato: «Oggi è un giorno di festa, siamo felici di chiamarci Europa». Il Santo Padre, che ha lanciato appelli veementi per la liberazione della donna, è stato subito informato. Questo pomeriggio l’ha ricevuta a casa Santa Marta, dove l’ha ringraziata per la «testimonianza di fede», per il suo «eroismo» e la sua «costanza». Meriam ha ricambiato i ringraziamenti, per il sostegno che la Chiesa cattolica le ha fornito durante gli ultimi mesi.
Meriam, 27 anni e una laurea in fisica, è figlia di una donna etiope, cristiana, e di un uomo sudanese, musulmano, che aveva abbandonato la famiglia quando Meriam era ancora una bambina. La sua educazione, e la sua fede religiosa, è sempre stata cristiana, e tale si è sempre ritenuta e dichiarata. Le autorità cominciano a interessarsi a lei pochi mesi fa, quando Meriam si sposa con Danel Wani, sud-sudanese, cittadino americano e cristiano. L’unione, tuttavia, è giudicata come un adulterio dalla sharia, la legge islamica che in Sudan è in vigore dal 1983. Dal momento che Meriam è la figlia di un padre musulmano, e pertanto considerata ella stessa musulmana, il suo matrimonio con un uomo di fede diversa non è riconosciuto e considerato alla stregua di un adulterio. Il 15 maggio un tribunale sudanese la condanna dunque per apostasia e per adulterio, e ordina la comminazione di cento frustate e l’impiccagione. Quando le viene offerta la libertà, in cambio dell’abiura, Meriam rifiuta.
La sentenza suscita da subito l’indignazione e le vive proteste della comunità internazionale e delle chiese di diverse confessioni. Numerose organizzazioni no-profit, inclusa la Italians For Darfur, si erano mobilitate con manifestazioni a sostegno della donna. Anche la Commissione nazionale per i diritti umani sudanese si schiera contro la sentenza del tribunale, dichiarandola contraria alla Costituzione, che prevede la libertà del culto. Il 23 giugno la Corte d’Appello assolve Meriam. Il giorno seguente, tuttavia, viene fermata all’aeroporto con il marito e il figlio, mentre stava per partire per gli Stati Uniti, che le avevano prontamente offerto asilo. L’ambasciatrice sudanese in Italia spiegava l’arresto con un controllo dei passaporti. Un cavillo burocratico che impedisce a Meriam e alla famiglia di lasciare il paese per gli Stati Uniti e che, soprattutto, la costringe a partorire in carcere, e in catene.
Il 17 luglio, il Parlamento europeo, riunito in assemblea plenaria, esorta il Sudan a far sì che venga garantita l’assistenza sanitaria necessaria alle donne incinte e alle puerpere, qualora si trovino in carcere, e ad abrogare «tutte le disposizioni di legge che penalizzano o discriminano le persone per le loro convinzioni religiose, perché cambiano religione o credo o per aver indotto altri a cambiare religione o credo, soprattutto quando i casi di apostasia, eterodossia o conversione sono punibili con la morte». Oggi, finalmente, la fine dell’incubo, per Meriam e per la sua famiglia. Rimarranno a Roma per un paio di giorni, prima di riprendere la strada verso altri paesi e un altro futuro.