Evviva, mi hanno ridato la patente (elogio sperticato delle vigilesse)

Mettiamola così: c’è sempre un lato positivo anche in disavventure come quella di vedersi ritirare la patente perché scaduta e doversi arrangiare con ogni mezzo per organizzare gli spostamenti. Nel caso specifico il positivo è nell’essersi imbattuti in apparati inaspettatamente efficienti. Ed efficienti per merito sempre di donne. Prima la scuola guida, con ragazza tuttofare che capisce la mia ansia e rimedia al problema che il dottore per la visita quel giorno non c’è. S’accorda con un’altra scuola guida alleata, dove sa che il dottore passa il venerdì sera. Cosa fatta, anche se mi spedisce al lato opposto della città. Ma anche là c’è una signorina cortese e sollecita che mi accoglie, e mi intrattiene con storie simili alla mia per consolarmi, nell’attesa dell’arrivo del dottore. Il quale ovviamente è un burbero, che si presenta palesemente infastidito per quell’appuntamento serale e che mi liquida con una visita di cinque minuti. Solite letterine, solite figure da individuare su cartoncini che fanno venire il mal di mare.
Ma la vera sorpresa al femminile sono le vigilesse. Sono loro che hanno preso in mano il comando a cui mi hanno detto di andare per ritirare il prezioso e vecchio straccetto rosa, cioè la mia patente. Varco la porta ed ecco subito la prima, all’accoglienza. Sta seduta su un tavolo, con fare molto da far west, come fosse in un saloon. Pistolone in vista, cellulare nell’altra, in un nano secondo mi dice dove devo andare e a chi mi devo rivolgere. Terzo piano, corridoio a sinistra, seconda stanza. Poche parole chiare, sparate fuori a mitraglia. Eseguo, ovviamente, perché davanti ad una così ci si sente un po’ soldatini. Salgo, esco dall’ascensore e in corridoio ecco altre due vigilesse che passano col fare deciso. Le osservo, un po’ stregato. Sono in divisa, con golf blu, pantaloni di quelli impermeabili e stivali alla militare portati con assoluta nonchalance. Noto che hanno tutte capelli tagliati corti, un po’ alla maschile, ma con vezzi ben calcolati come colpi di biondo, meches o spuntature irregolari. Sembra la sequenza di un serial americano, con quelle due che nella stanza accanto fra poco faranno sputare la verità ad un delinquente a quattro ruote e intanto fanno perdere la testa al suo avvocato...
Ma il mio fantasticare s’infrange quando una porta si apre rumorosamente e ne sbuca un agente, un po’ appesantito, pacchetto di sigarette in mano, capelli in disordine e già imbiancati. Vedendolo capisco che il mondo sta davvero passando di mano. Ed è forse meglio così. Ne ho una conferma una volta che mi presento allo sportello. C’è un’altra vigilessa intenta a sistemare la pratica di un automobilista prima di me, e quindi mi metto dietro ad aspettare il mio turno. Ma ad un certo punto vedo che si volta verso l’interno dell’ufficio e con un comando secco, chiama per nome un agente: «Vieni qui c’è un signore che aspetta». Quello si avvicina con fare un po’ strascicato, controlla se le carte che ho portato sono in regola e poi va a cercar la mia agognata patente. Appena ce l’ho di nuovo tra le mani la centellino e la guardo come non l’ho mai guardata. Vedo quella mia foto di un po’ di decenni fa, capelli lunghi, occhiali massicci. Saluto e ringrazio, con riconoscenza un po’ affettata. Sotto, quando esco, la vigilessa cow girl è sempre lì, a cavalcioni del tavolo. Presidia con fare sciolto e autoritario il palazzetto. E devo ammetter che vedendola me ne vado sentendomi più sicuro.