«Il mio incontro col Papa» E tutto quel che ne è seguito
Piero Busi è un personaggio unico, quasi leggendario. Politico di lunghissimo corso, è il sindaco più longevo d’Italia e ha battuto anche i record europei. Il suo "castello" è l'intero paese di Valtorta, un piccolo borgo in cima alle montagne, ma i suoi possedimenti coprono un territorio molto più vasto. Un giorno un tale lo presentò come il vicerè della Valle Brembana. Lui lo interruppe subito: “Perché vice?”.
In effetti, Busi re lo è davvero: ha sempre agito di testa sua e in più è pure povero, quindi libero. Non possiede nulla, ad eccezione dell'appartamento dietro lo stadio di Bergamo che il suocero ha lasciato a sua moglie e la modesta casa dei suoi genitori a Valtorta. Per decenni ha guidato la Comunità montana. Adesso che ha abbandonato la politica attiva e non deve più confrontarsi con gli altri (come sindaco di Valtorta non sa neppure che cosa sia l’opposizione) s’è buttato anima e corpo in quella che resterà come l’opera più grande della sua vita: la casa di riposo Don Stefano Palla di Piazza Brembana. Gli anziani della Valle vanno a passarci gli ultimi anni della vita e a morire. Contenti, perché sono trattati da principi sapendo di essere nelle mani e nel cuore di un amico. Busi ha 81 anni, ne dimostra settanta e lavora come uno di quaranta. Ha mille occhi ed è tutto per la sua gente. Che nel giugno scorso ha voluto fargli un regalo.
Capitolo I. Andiamo a Roma
«Quelli del "Don Palla", il don Alessandro - parroco di Piazza - e i preti della Valle mi hanno fatto una bella festa per gli ottant’anni. Alla fine mi han detto: “Busi tu e tua moglie presto o tardi sarete ricevuti dal Papa. Abbiamo prenotato l’andata per te e tua moglie, il ritorno solo per te”. Scherzavano, ma poi un giorno mi dicono: “Andiamo a Roma”.
Siamo scesi io, il don Alessandro, le mie due figlie, il genero e i due nipoti. Mia moglie non ha potuto venire perché aveva problemi alla schiena. C’era la messa in Santa Marta, ma solo io e mia figlia Giovanna, la maggiore, siamo potuti entrare. Don Alessandro è andato con gli altri a celebrare sulla tomba di papa Giovanni.
Alla fine ho avuto modo di parlare a tu per tu con il Papa. Non abbiamo parlato a lungo, però eravamo lì come noi adesso. Sapete come sono fatto io: appena mi sono avvicinato gli ho detto: “Santità, non molli e vada avanti. Perché guardi che la società ha bisogno di lei”. “Si - ha risposto - ma allora pregate per me”. Dalle battute che faceva ho capito che sapeva tutto di me (non penso che il papa riceva una persona senza sapere chi è). E a un certo punto è saltato fuori il problema della messa. Gli ho confidato di non essere quel che si dice un frequentatore assiduo. Devoto si, credente si, però tante volte - gli ho detto - "se incontro una persona che ha bisogno preferisco aiutare lei che andare in chiesa, e mi sento lo stesso a posto". Poi ho anche aggiunto – sapete come sono fatto – "non è che la messa sia sempre il massimo: dipende chi la celebra. Io, quando vado, formulo immediatamente un giudizio sul prete: se è bravo a far la predica, bene; altrimenti, se devo sentire le cose di settant’anni o di ottant’anni fa…
Il Papa ha sorriso, quasi divertito, e mi ha detto: “Guardi, siccome lei conosce tutti, è a contatto con tutti, per i giovani non può non andare a messa”. E lì è finita».
Capitolo II. Tornati a casa
«In realtà dovrei dire che è cominciata. Perché dal 23 giugno dell’anno scorso non ho più perso una messa alla domenica. Il papa mi ha dato la dritta e io ho capito che non devo più mancare. Quest’uomo sta salvando la Chiesa e non solo la Chiesa. A me ha chiesto di pregare per lui e da quel giorno, tutte le sere, prego per lui. Mi è capitato una volta di non ricordarmelo e ho pregato al mattino.
Intendiamoci, non è che prima non andassi mai a messa. Ogni dieci giorni al "Don Palla" muore qualcuno e io vado a salutarli tutti. Anche domani mattina vado: una donna di Piazza mi è morta ieri sera. Ieri mattina era ancora presente: le volevo un bene… A parte il fatto che ha lasciato tutto a me: soldi, casa e tutto il resto. Ma io ne ho tanti di lasciti da amministrare, perché negli anni si sono stabiliti numerosi rapporti di fiducia. Succede sempre più spesso.
Stamattina ne è morta un’altra. Al "Don Palla" è venuto il don Alessandro e io sono rimasto scioccato da come le ha dato l’estrema unzione. Una procedura che non vedevo da molto tempo fatta così bene da una prete. Però questo fa un po’ parte del gioco. Per la preghiera, invece, io sono stato, per così dire, costretto.
Ve ne racconto una delle tante: fiera del bestiame di Valtorta, a settembre. Il papa mi aveva detto di trovare occasioni di pregare per lui. E noi siamo lì alla fiera: era presente anche l’assessore regionale all’agricoltura, Fava. A un certo punto io chiedo al parroco di benedire la manifestazione. Poi prendo la parola, ringrazio tutti e dico: "Sentite una cosa, tutti sapete che sono andato dal papa e mi ha chiesto di pregare per lui. Quindi dobbiamo pregare per lui. E ho attaccato: “Ave Maria..”. Ho detto le tre Ave Maria davanti a tutto quel pieno di gente. Qualcuno magari avrà riso, ma l’assessore dopo mi chiede: "Come fa lei, Busi, ad avere il coraggio di fare queste cose qui?". Pota - gli ho risposto - me l’ha imposto il papa. Da allora faccio la stessa cosa in tutti gli incontri. Anche al "Don Palla quando facciamo le assemblee. Adesso sono addirittura gli altri a invitarmi a dire le "Ave Maria".
Io sono sempre stato uno d’azione più che di contemplazione. Adesso mi sto.. Vi dico l’ultima: un mezzo miracolo l'ho già ricevuto. Al "Don Palla" hanno preparato due quadri nei quali compaio accanto al papa. Uno con la didascalia “Il nostro presidente a colloquio con Sua Santità papa Francesco”, l’altro con scritto: “Il nostro sindaco a colloquio con Sua Santità papa Francesco”. Un giorno prendo uno di questi quadri per portarlo a studio fotografico a San Giovanni Bianco. Attraverso la strada, faccio per entrare nel negozio, ma non ho visto che c'era un gradino e sono caduto. Avendo picchiato la testa forte sul pavimento credevo di essermi spaccato il naso e gridavo per il dolore, mentre il fotografo urlava a qualcuno: “Chiama il pronto soccorso e l’ospedale”. Avevo sentito che si erano spaccati tutti i vetri, ero ancora lì per terra che gridavo, quando, girandomi mi accorgo che il quadro era lì in parte, assolutamente intatto, mentre io non avvertivo più alcun dolore. La mia lettura di questo avvenimento è questa: prima il Signore mi ha punito per tutte le “baraccate” che ho fatto nella vita e poi mi ha perdonato.
Capito III: Come va il "Don Palla"
«Va bene. È sempre pieno e ho richieste da tutte le parti. Voglio costruirne un altro. Però forse in valle Imagna. Se la Curia molla un bel patrimonio che ha su, a Rota Imagna… Per il momento ho desistito perché il complesso sarebbe tutto da ristrutturare, ma la Curia vuol essere pagata. Così gli ho detto all'economo: "Non vi do neanche una lira. Il papa ha detto chiaramente che chi disponde di strutture inutilizzate deve metterle a disposizione di chi ha bisogno. E voi volete i soldi? State attenti perché io scrivo al papa".
Perché poi le persone mi dicono: “Ma Busi, allora il ricovero?”. "Sentite un attimo - ho risposto ad alcuni che mi hanno fermato -: non sono mica a disposizione; se le cose vanno secondo le mie intenzioni, bene. Altrimenti non se ne fa niente". Anche i sindaci devono essere d’accordo: qualche sacrificio dovranno pur farlo, la gente deve sentirsi coinvolta. Comunque questi qui della curia hanno strutture dappertutto. Papa Francesco deve ancora arrivare da queste parti.
Ieri sera sono andato al Patronato a trovare il don Davide (don Davide Rota, superiore del Patronato San Vincenzo, ndr). Il Patronato si capisce che è un’opera che ha voluto il Padre Eterno: ha tutti i poveri addosso. A un certo punto gli ho detto: "Ma come fai?" E lui: "Te, ma se il Signore mi ha chiesto di fare questo lavoro mi darà anche i mezzi, altrimenti è impossibile". E infatti i lavori lì funzionano bene. E la gente è riconoscente perché coglie subito uno che dà tutto di sé senza chiedere nulla per sé. E arrivano gli aiuti, le donazioni».
Capitolo IV. Le eredità
«E in questo campo devo ammettere che sono troppo fortunato. Continuano tutti a rivolgersi a me: mi mandano dai drogati, mi mandano da famiglie che stanno andando allo sfascio. E tante volte riesco a uscirne bene. Forse sarà stata l’esperienza accumulata all’USL, che quando c’era un problema dovevo affrontarlo io. Mi chiedono aiuto e io parlo con uno, con l’altro, con l’altro ancora. E a ciascuno racconto chi sono. Gli faccio la storia della mia vita. Da quando ero bambino al Patronato fino al giorno d’oggi.
Una volta una signora mi chiese appuntamento. “Perché”, le domandai? “Perché tutti in giro dicono che chi ha dei problemi deve rivolgersi a lei". Vado a trovarla e scopro che vive in un appartamento favoloso, arredato in maniera stupenda. Capisco subito che deve essere molto ricca: mi aveva anche preparato una torta grossa così… Lei comincia a raccontare: “Sono vedova, mio marito mi ha lasciato un sacco di soldi. Ho due nipoti che ho sistemato sotto l’aspetto finanziario, ma che stanno litigando tra di loro. Lei mi deve dare una mano”. La guardo sbalordito. “Senta, aggiunge, le do quello che vuole. Appena riesce a parlare con uno le do centomila euro. Subito. Quando parla con l’altro, altri centomila. E altri centomila se riesce a fargli fare la pace”. Li ho incontrati. Racconto loro la mia vita. Vedo cosa succede. Non lo faccio certo per i centomila euro. Ho raccontato questa vicenda per dire che sono cose che mi capitano senza che io le abbia cercate. Non dico che me ne capita una al giorno. Facciamo due o tre a settimana.
Quindici giorni fa due giovani mi hanno detto: "Ma come ha fatto lei a fare tutte queste cose?". E io: "Basta un po’ di buona volontà. Domandatevi, per un momento, qual è il senso della vita, il suo significato: qual è? Aiutare chi ha bisogno. Non dico che per aiutare gli altri non si debba lavorare. Non dico che non si debba darsi da fare a creare ricchezza. Però…».
Capitolo V. Come va la Valbrembana
«Mica male. Una crisi che fosse proprio crisi crisi non s’è vista. C’è qualcosa che non funziona, che manca. Ma bisogna anche sapersi accontentare. Se si pensasse a come vivevamo negli anni Cinquanta, non ci sarebbe proprio motivo per lamentarsi. E non si può dimenticare il passato: è troppo comodo. Piuttosto ci sarebbe da chiedersi come sarà il futuro. E la prospettiva non è rosea. Sono scomparse le famiglie. Non ancora completamente, però ne sono rimaste pochissime. Matrimoni non se ne celebrano più. Si vive col compagno, con la compagna. Figli? chi sa. E senza figli che crescono, che fine faremo? Non lo so.
Al momento sto cercando di convincere due giovani a sposarsi. Me l’hanno chiesto i genitori del ragazzo, che è davvero un bravo ragazzo, ma - lo sapete - non basta essere bravi. Diverse sere li ho portati a mangiare fuori per capire chi dei due comandava. Quando ho capito che era lei… mi son trovato un po' in difficoltà. Sapendo che vivono assieme già da tempo li ho messi davanti al problema: "Se domani metteste al mondo un figlio, cosa dirà quando crescerà tanto da farsi delle domande? Dirà: "Mah, mio padre e mia madre non sono neanche sposati, son stati assieme per qualche tempo… Ma dico: non vorrete mica avere questo problema?". Mi hanno risposto: “Ci penseremo dopo”. “No, cari miei: dovete cominciare a pensarci prima”.
Il futuro è un’incognita soprattutto per questo, non per l’economia. L’economia è un aspetto importante della vita, ma la vera crisi è questa: che nessuno vuol più metter su famiglia. E come farà la società a crescere senza le famiglie? Tutta la Valle ha 38mila abitanti. Praticamente è un quartiere. I giovani se ne vanno, figli ne nascono pochissimi e gli immigrati non arrivano: ce ne sono tre o quattro a Zogno, ma nei paesi dell’alta valle non ce n'è nessuno. Una volta una famiglia aveva sei o sette figli: adesso è già tanto se ne mette al mondo uno. È questo che farà morire la valle.
Le opportunità di lavoro non mancheranno: fortunatamente, Percassi è salito a investire a San Pellegrino. Ha fatto un cosa bella con le terme, un'impresa gestita da gente capace. Tutti gli alberghi sono già pieni. A Piazza Brembana ho a disposizione la vecchia colonia: quattordici mila metri quadrati di parco. Vorrei farci un albergo a quattro stelle. Sarebbe bellissimo, a cinque chilometri da San Pellegrino.
Conclusione
«Adesso però devo cominciare a tirare i remi in barca. Sto passando in rassegna la mia vita. Voglio individuare tutte le persone che mi hanno aiutato ad arrivare dove sono arrivato. E poi anche quelle che han tentato di farmi del male, e le altre, quelle con cui siamo arrivati a una rottura. Per recuperarli tutti. Il 30 giugno compio 82 anni. Non voglio morire sapendo che sono in bega con qualcuno. A proposito: mi potreste aiutare a incontrare quel tale?...».