Otto madri ci raccontano il mistero del venire al mondo
A Pavese le madri non piacevano molto. A De André, invece, già di più. Ma che ne sanno, in fondo, della vita, gli artisti. A noi, comunque, piacciono tantissimo. Un po’ per partito preso, cioè così, a pelle e senza motivo, un po’ perché sono, oggettivamente, una delle cose più belle del mondo. Bisogna proprio essere cinici, per non commuoversi all’idea e davanti alla figura di una madre. E pure ai cinici, a dirla tutta, traballa un po’ il cuore, in questo frangente.
L’occasione di raccontarne otto è questo periodo del Natale. Cioè quella manciata di giorni all'anno in cui, credenti o no, ricordiamo che qualcuno ci ha a cuore. Che ci ama. E per amarci, quel qualcuno viene al mondo. È una madre, allora, a consegnarci il mistero e la grazia. Perciò, questo è un modo per dire grazie.
Esterina
Esterina è così piccola che, quando la vedi camminare per le vie del paese vecchio, sembra una bimba. Invece, è una madre. Porta i suoi 86 anni con un sorriso sempre accogliente e uno sguardo di zucchero. Viene da un mondo che non esiste più. Quello dell’Albero degli zoccoli, per intenderci. Semplice e carico di cose che contano. Forse è per questo che quando le si chiede di raccontare quel figlio arrivato dopo due femmine morte presto, abbassa gli occhi e arrossisce. È una domanda troppo personale, o solo una cosa della vita, che quindi a dirla poi rischia di diventar niente? Con buona approssimazione, è solo pudore. Ma quello sano, solidissimo, che se si impegna riesce a tenere in piedi un’esistenza intera, a suon di valori mai parlati. Come le mura di pietra della casa in cui vive da sempre. Oggi c’è lei, lì dentro, così piccola e così vecchia. Una volta c’era già lei ma con lui, così piccolo e così nuovo. Lo teneva in braccio senza sosta, in mezzo alle suocere, alle cognate, alle sorelle. A quel coro di madri che diceva poco e insegnava molto. L’unica cosa che narra volentieri è un canto, in bergamasco, per cullare. Una carezza senza fronzoli.
Emma
Quando si sposa ha poco più di vent’anni. Lui è bellissimo, con la mascella forte e lo sguardo fiero. Lei è felice. È il settembre del 1957, presto – spera – arriveranno dei bambini. Ma le strade del Signore non sono sempre chiarissime. Così Emma ne perde subito uno, stava nella sua pancia da due mesi. E lì comincia ad avere paura. Si fida di Dio, ma non lo capisce. Prega tantissimo, in lunghe novene. Passano solo due anni, prima che nasca una bella bambina. «Solo» lo diciamo noi, per lei è stato un inferno. Essere madre è probabilmente l’unica cosa che abbia mai voluto davvero, l’unica che la renda davvero orgogliosa, insieme all’essere moglie. Semplificando, ovviamente. Ma neanche troppo.
Quando nasce, la piccola, è paffuta e in salute. Emma ha mangiato tantissimo, il dottore le ha sempre detto che doveva mangiare per due. La bimba sta bene ma lei non tantissimo. Ci sono delle complicazioni durante il parto e lei – ride oggi a dirlo – per il dolore aveva pure tirato un calcio al dottore appena prima di svenire. Con un contegno e un timore che ci è oggi totalmente estraneo, scusarsi con lui era stato il suo primo pensiero, appena riaperti gli occhi.
Quello che viene dopo è una vita spesa a crescere i suoi tre figli, due maschi e la femmina. Non li lascia mai con nessuno, li tiene sotto l’ala esattamente come farebbe una chioccia. E parla tanto con loro. Parlerà sempre tanto, con e di loro. Con una punta di malinconia, dissimulata da un sorriso, oggi che ha 80 anni dice: «Poi, quando i fa la murusa, l’è finida la storia». Ma in realtà non è vero, e lei lo sa.
Teresina
Teresina ricama. Ha 25 anni, 50 meno di adesso. Ricama un po’ con il filo rosa e un po’ con quello azzurro. Non sa se sarà maschio o femmina. Ricama su piccole magliette, vestine mignon: si chiamavano camicini, allora. Solo questo, confida. Che ricamava. Solo questo, ha preparato davvero. Il resto, passeggini e orpelli vari, non era ancora abitudine, quindi nemmeno ci pensa.
Teresina ricama, e sta bene. Lo aspetta senza dolore e senza preoccupazioni. Se lo sente, che tutto andrà come deve andare. Una grazia che cresce in proporzione al suo desiderio e al suo amore. Quando nasce, c’è solo l’ostetrica con lei, ma lei non ricorda nulla di male. E, se lo ricorda, lo dice come fosse niente di che.
Quando torna a casa, è come se qualcuno le mandasse un angelo. Il legame di parentela dice: zia di suo marito, in effetti un po’ lontano. Ma abita vicino, e tanto basta. Così, Teresina la trova pronta ad aiutarla. Le chiede tantissimi consigli, riceve il suo sostegno. Lo cresce lei, comunque, ci tiene a specificarlo, e così gli altri figli. Torna al lavoro solo quando tutti e tre sono a scuola. Com’è bello sentirlo raccontare, il tempo del mettere al e poi nel mondo, in quest’epoca di asili nido e baby sitter a tutte le ore.
Valeria
Sono passati 23 anni, dal suo primo figlio. Valeria lo sapeva, che sarebbe stato maschio, se lo sentiva proprio. Ancora prima di rimanere incinta, ne era assolutamente sicura. E infatti, è arrivato maschio. Dopo di lui, altri due, maschi entrambi, l’ultimo un po’ più lontano, così oggi è ancora il piccolo di casa. Immaginatevi il terremoto che doveva essere, quand’erano bambini. Però, alla fine, a Valeria è sempre piaciuto. Sono i suoi gioielli.
Che poi ci sono queste sensazioni che la guidano, come dei segni inconfutabili. Sembra persino che non le servano, le cose mediche. 23 anni fa, ad esempio, le è venuto mal di testa per la prima volta in tutta la sua vita. E lì ha capito. Era felicissima. Al settimo cielo, proprio. Per di più, stava benissimo. Mangiava e riposava. Anche quando lui è arrivato nel mondo, non c’è stato nessun inghippo. Il papà era lì, il parto è stato naturale e tranquillo.
A casa la cameretta è pronta, riempita con i regali di tutti. E lei non riesce a smettere di parlargli. Forse è per questo che sono così chiacchieroni, dice oggi. E poi, sorride.
Giovanna
Giovanna è mia madre. Quando sono venuta al mondo, 28 anni fa, ci ho impiegato poco più di un’ora. Sono stata bravissima. Ma lei di più. Le contrazioni sono cominciate qualche ora prima, a casa di mia nonna. Però lei, per non dare pensiero a nessuno, ha chiesto consiglio solo a sua sorella e aspettato che fosse il momento giusto. Mezzanotte era il momento giusto: mio padre l’ha portata ai Riuniti.
Prima, un pochino avevo fatto disperare, ma non troppo: qualche mese di nausea, qualche flebo, ma sarà stata colpa dell’estate, dai. Lei intanto ha lavorato, fino al settimo mese, poi, per legge, bisognava fermarsi. Ha preparato la cameretta per me e comprato solo il lettino. Il resto è arrivato in prestito da parenti e amici. Una lezione d’essenzialità che allora non potevo di certo capire. Adesso sì. Comunque, era un signor lettino, con sopra due drappi bianchi che partivano dal soffitto, cuciti da lei: una cosa da principesse.
All’una e qualcosa di notte, con la mamma c’erano sua zia infermiera e mio padre. Che non doveva avere una bella cera, se la zia a un certo punto gli ha consigliato di uscire a prendere una boccata d’aria fuori dalla stanza. Lui spiega che era l’impressione di vederla soffrire, mica per altro. Certo. Comunque, anche lui lo dice che è stata bravissima. Così composta, così coraggiosa. Lei invece dice solo che strillavo parecchio, per dare il benvenuto al mondo. Ma che ho smesso subito, appena ho appoggiato la guancia nel suo abbraccio.
Marta
La prima è femmina e, siccome è femmina, si lascia scoprire tale solo all’ottavo mese. Cioè quando Marta smette d’andare a scuola a insegnare e comincia ad aspettarla h24. Anche prima, ovviamente, la aspettava h24. Ma adesso del tutto, e forse è per quello che il tempo comincia a passare pianissimo, persino a pesare un po’, assieme alla pancia. Fa caldo, in quei lunghi e lenti giorni, e lei non ne vuole sapere di rispettare la data che le han dato per venire al mondo. Si mette addirittura con la testa dalla parte sbagliata, giusto per ribadirlo. E ci vuole un cesareo per convincerla. Quando arriva, la fatica è come se fosse uno strano ricordo lontano. Resta solo la commozione.
Le misure del mistero comunque si prendono col tempo, e a tentativi, ché tanto, tutto intero, continuerà sempre a scappare. Gli orari dell’allattamento ritoccati spesso, la tecnica giusta che sembra così complicata, quella bilancia presa in prestito e usata prima e dopo ogni pasto, l’ansia della prima volta.
E i discorsi, quelli che si fanno col tono tenero nel chinarsi sopra la culla. Lei chissà cosa capisce, ma Marta le parla lo stesso e le fa ascoltare la musica. Ha solo 20 giorni, quando vede la montagna. Un’altra prima volta. Quante ancora ne arriveranno.
Raffaella
Fino al settimo mese, Raffaella riesce a lavorare. È la prima gravidanza, ma lei sta benissimo. Uno stato di grazia, in effetti, in cui scivola per tutto il tempo. Compra tantissime cose: quelle che servono, e pure quelle che avanzano. Si diverte, a preparare il mondo per chi sta arrivando. Lettino, fasciatoio, ma anche giochi e carillon da appendere alla culla. Si vede, che se lo pregusta, quel fagottino. Con il papà gli legge i suoi autori preferiti, gli fa sentire la musica migliore. L’ultimo mese decora con le sue mani le pareti della cameretta, ci mette anche le lettere di un nome che pronuncerà milioni di volte.
Lui sta per arrivare, anche se è ancora a gambe all’aria e serviranno i dottori, a ruotargli la testolina dalla parte giusta. A parte medici e ostetriche, c’è lei da sola, nella sala dell’operazione chirurgica, in quel momento in cui lui, che più nuovo di così non si può, piange per la prima volta. E lei pure, anche se non per la prima volta: ma qui sono lacrime belle.
Non vedeva l’ora di conoscerlo. Poi, non vede l’ora di fargli conoscere il mondo. Lo porta presto dagli amici, dai colleghi, persino dall’estetista, una volta anche fuori a cena. Appena si può, a vedere il mare. Quanto è amato, chissà se lo sente. Anche allattare è un momento bellissimo e senza troppi patemi: non lo pesa più di una volta alla settimana. Si prende cura di lui, poi lui le insegna a capire. Presto sarà in buona compagnia. Uno stato di grazia, dicevamo.
Alessandra
Alessandra ha 34 anni, un master in International Management e tre figli, due maschi e una femmina. Il più grande arriva tre anni fa e le regala, innanzitutto, il lungo e densissimo tempo dell’attesa, lontano dal lavoro. Nove mesi interi. Una gravidanza a rischio, le dicono, perché preceduta da due aborti spontanei. Così, le visite sono tantissime, una ogni quindici giorni. Alessandra, con quel primo figlio, fa l’esame per scoprire se è sano oppure no. Translucenza nucale, si chiama, con un nome che mischia scienza e poesia. La poesia è quella con cui si sceglie di tenere il bambino anche se presenta sindromi e complicazioni, la scienza è quella che di solito consiglia di interrompere la storia prima che cominci. Per questo, con gli altri figli, Alessandra non la vuole più fare. Tempo perso: avrebbe detto comunque di sì, alla vita.
La pancia cresce ed è estate. Gli abiti leggeri sono comodi e attorno a lei tutti sono diventati gentili. Ogni cosa ha il suo posto. La vita è caparbia e imprevedibile. Poi cambia la stagione, e arriva il momento. Il travaglio dura nove ore, dalle quattro del pomeriggio all’una di notte. Epidurale non datur. Suo marito è lì ma Alessandra si sente lo stesso un po’ abbandonata. Tocca solo a lei. È stanchissima, ma si fa coraggio. Quando nasce, lei sente un filo di paura. Passerà presto, basterà immergersi in quegli occhi nuovi che se li osservi ti può venire in mente solo quanto siano veri. Basterà guardarlo a lungo. E poi guardare gli altri due. Che in tutto fanno tre, in tre anni. La vita, quando ci si mette.