«Preferisco un figlio felice a un figlio ricco e stressato»
Simon Kuper, editorialista del Financial Times, ha pubblicato un intervento in cui affronta un dilemma secolare. E cioè: è meglio essere molto ricchi oppure è meglio essere felici? Ovviamente si parte dal presupposto che non sia possibile raggiungere una condizione tale per cui le alternative vengano entrambe soddisfatte. Almeno non se per ricchezza si intende un cospicuo conto di banca, vale a dire non se si dà alla parola il significato che convenzialmente, comunemente, le viene attribuito. I termini in cui è posto l’interrogativo permettono di formulare alcune considerazioni, che riguardano l’impossibilità, per noi contemporanei, di ammassare denaro e, al tempo stesso, di goderne in tranquillità. Se si lavora troppo per diventare ricchi, il rischio è quello di non raggiungere mai quello stato di benessere per cui ci si affatica: ad esserne i veri beneficiari saranno, forse, i figli e i nipoti. Insomma, un po’ quello che è successo dopo il boom economico italiano degli anni Cinquanta, mutatis mutandis. Ma riportiamo prontamente la parabola del discorso al nostro tema, per evitare che pecchi di eccentricità.
Kuper, si diceva, risponde chiaramente alla domanda su esposta scegliendo, senza sorpresa da parte di alcuno, la seconda opzione. Il motivo è lampante: ammesso (e non concesso, direbbero i buddhisti) che si viva una sola esistenza, per quale motivo bisognerebbe rinunciare alla felicità, in cambio di una ricchezza che non si riesce a sfruttare? Il ragionamento condotto da Kuper si applica, nello specifico, alle nuove generazioni. Prende le mosse da un ricordo di vita vissuta:
Un giorno di questa estate, mentre stavamo guardando i nostri figli che giocavano insieme, una madre americana mi ha spiegato la sua strategia educativa. La retta della scuola dei suoi bambini costa più di 30 mila dollari all’anno. Il suo scopo è quello di fare ammettere gli allievi in college prestigiosi. Per aumentare le loro possibilità, incoraggia i bambini a ripetere le classi. La figlia di questa donna andava bene a scuola, ma solo grazie a un’intensa attività di tutoraggio extra-curriculare. La bambina stava per ripetere la quinta classe. L’obiettivo della madre, per come l’ho inteso, era questo: i suoi figli sarebbero diventati medici o avvocati con lo stipendio tipico dell’ 1 percento della popolazione. Ovviamente, progetti come quello di questa donna sono ora comuni. Mentre l’1 percento diventa sempre più ricco, sempre più genitori vogliono che i loro bambini ne facciano parte. Recenti scoperte sulla felicità sembrano appoggiare il loro pensiero: la maggior parte dei ricercatori oggi crede che la felicità aumenti con lo stipendio. Non c’è un limite di saturazione, oltre al quale il denaro non conta più, come invece si pensava in passato.
L’1 percento a cui si riferisce Kuper è quella fascia di popolazione mondiale abbastanza agiata per potersi permettere i beni non necessari alla sopravvivenza. In pratica, la fascia media e medio-alta del mondo occidentale, costituita soprattutto da chi svolge le professioni liberali. Dunque, per la maggior parte delle persone, cioè dei genitori, entrare a fare parte di questo club garantirebbe tutti gli agi di una vita non troppo assillata da preoccupazioni finanziare. Questo è vero, ma fino a un certo punto, perché non tiene conto di un elemento fondamentale: quello che oggi viene definito il “fattore umano”. Cosa direbbero tante madri e tanti padri preoccupati del successo dei loro pargoli, se sapessero che in realtà i loro figli preferirebbero non imparare il linguaggio degli affari, o dell’avvocatura (per fare un esempio), ma parlare quello dell’agricoltura? Forse i genitori dovrebbero limitarsi a sognare i loro sogni e lasciare fiorire quelli dei figli. Anche perché, presegue Kuper:
In breve, fare parte dell’1 percento oggi significa generalmente vivere in un appartamento affollato circondati da alcolizzati del lavoro pieni di angoscia e da eredi immeritevoli. Non c’è da stupirsi se i banchieri fantasticano di fare il numero e poi andare in pensione. Questa vita diretta al futuro è problematica, perché come ha scritto Seamus Heaney, «Il modo in cui stiamo vivendo,/ timoroso o audace,/ avrà fatto la nostra vita». […] Dopo tutto, il vero lusso non è il denaro; è non dovere pensare al denaro. Molti poveri devono pensarci per tutto il tempo. Voglio che i miei figli siano in una condizione economica tale per cui il denaro perda rilevanza.
La condizione migliore, per Kuper, coinciderebbe con una giusta via di mezzo: non è necessario essere straricchi (anzi, potrebbe essere controproducente), ma è meglio assicurarsi, almeno, la sicurezza economica. E il modo ideale, nonché più efficiente, per raggiungerla è quello di usare i propri talenti. Esistono vari tipi di “talenti” e ognuno ne ha avuto in eredità una parte, una parte di gettoni (non a caso il “talento” era denaro corrente, nell’antichità) che rimpinguano i nostri forzieri. Ma affinché abbiano un valore reale, questi talenti devono essere spesi. Essere felici, dunque, significherebbe dispiegare le proprie energie nel modo più confacente alla nostra personalità.
Kuper riporta alcuni dati, a sostegno della sua posizione. In Gran Bretagna i mestieri che producono maggiore soddisfazione non sono quelli “prestigiosi”, ma il sacerdozio (20 mila sterline l’anno di stipendio) e l’insegnamento della ginnastica (10 mila). Inutile quindi ossessionarsi e ossessionare i figli con il mito del successo, prima scolastico, poi lavorativo. Serve solo ad aumentare i livelli di stress e, a lungo andare, potrebbe persino portare a forme depressive.
Intervistato da la Repubblica, l’editorialista del FT ha aggiunto: «La miseria non rende felice nessuno, ma una diversa scelta di vita forse sì. Dopo un’inchiesta a Reggio Emilia mi è parso di avere incontrato più persone soddisfatte in una città di provincia italiana che in quelle che fanno la “rat race”, la corsa dei topi, come si dice nel gergo della finanza, fra banchieri e avvocati di Londra e New York». Certo, l’ideale di vita indicato da Simon Kuper non è facile da raggiungere, né da mantenere. Lui stesso ammette che, benchè sia un padre «Felice, forse mi divertivo di più quando scrivevo soltanto di sport, anzi di calcio. Fortunatamente, di tanto in tanto continuo a farlo». Ciò non vieta, tuttavia, che i figli di Kuper e, in generale, le giovani generazioni, cerchino di ottenere una posizione che li soddisfi sotto ogni aspetto. Non è facile, soprattutto oggi, ma è necessario (almeno) tentare.