Quando il cinema fa stare meglio Storia di un bimbo che dice «Groot»
Il potere del cinema può davvero andare oltre ogni aspettativa. Se per secoli l'uomo ha immaginato i romanzi che leggeva, dall'invenzione dei fratelli Lumiere ha potuto vedere realizzati concretamente i suoi sogni. Le immagini si fissano nella mente con una forza impressionante e il cinema ha letteralmente invaso l'immaginario collettivo, plasmandolo a sua immagine e somiglianza. Questo si può vedere nella vita di tutti i giorni, nelle frasi che ci escono spontaneamente: «Sei bellissima, sembri una diva del cinema» eccetera. Hollywood ha alterato fortemente la nostra cultura, sia a livello di abitudini e costumi, sia sul piano linguistico. Basti sapere che molte forme e locuzioni hanno attecchito nell'Italiano attuale grazie (o meglio, per colpa) delle traduzioni letterali dei doppiaggi che hanno imposto costrutti in realtà inesistenti nel nostro idioma. Niente di grave, ma ad esempio «assolutamente sì/no» non sono forme nostre. Che dire poi dell'invasivo «ok» che sostituisce ormai quasi ogni forma affermativa. Deprecabile anche perché di origini militaresche: significa «O killed», nessun morto.
Potremmo metterci qui a fare la nostra filippica contro gli influssi negativi di Hollywood, ma vogliamo invece raccontarvi una storia commovente, che spiega al contrario la forza immensa in senso positivo dell'arte cinematografia. Il 15 agosto un signore ha scritto un post sulla pagina Facebook di James Gunn, regista divenuto molto popolare grazie al film Guardiani della Galassia, grandissimo successo al botteghino, uscito nel 2014 per i Marvel Studios. Quest'uomo è Josh Dunlap e ha raccontato al regista la storia di suo figlio.
Il piccolo Sawyer è affetto da disprassia, un disturbo che riguarda la coordinazione e il movimento, con possibili conseguenze anche per la capacità di usare il linguaggio. Il piccolo sapeva usare solo tre parole all'età di tre anni, quando ha visto il magico film di Gunn. Si è dato il caso che nella pellicola c'era un personaggio molto simile al bimbo: è Groot, un uomo pianta che comunica soltanto attraverso la ripetizione del suo nome («I am Groot»), con diverse intonazioni a seconda del senso da dare alla locuzione. La trama si sviluppava in modo brillante perché quando questo supereroe decide di sacrificarsi per salvare i compagni da una micidiale esplosione, li ingloba all'interno di una sfera di rami e poi afferma: «We are Groot!». La trovata è geniale perché va ai fondamenti della comunicazione e della vita sociale: Groot passa da una visione individualistica delle cose ad una collettiva, semplicemente cambiando il pronome e il verbo. Non è lui solo ad affermarsi come entità, ma i suoi compagni lo completano e ne arricchiscono l'identità.
Il piccolo Sawyer, con tutte le sue difficoltà cognitive, non è rimasto indifferente a questa figura davvero emblematica. Racconta il padre che dopo aver visto il film ha iniziato a usare l'espressione «bah» un po' per tutto, declinandola con toni diversi per variare il significato veicolato. In seguito ha anche iniziato a dire «Groot» per indicare determinate cose. Grazie a questi passi in avanti il suo modo di rapportarsi ai genitori è enormemente migliorato ed è stato quindi possibile inserirlo in una classe di apprendimento linguistico. Questo fatto lo ha incredibilmente aiutato nel suo percorso di crescita.
I love making movies because of stories like this. Thank you.
Posted by James Gunn on Mercoledì 19 agosto 2015
Un evento di questo genere segna un momento importante nel dibattito sul rapporto tra finzione cinematografia e realtà. La storia di Sawyer ci dice che la Settima Arte non va assolutamente sottovalutata: non è importante la veridicità di una storia, ma la sua effettiva presa sui nostri sentimenti e sulle nostre idee; su questo non ci piove. Ma la facilità di questo specifico medium permette inoltre la fruizione anche a chi, per età, scolarizzazione o problemi patologici, non può attingere ad altre tipologie di comunicazione mediata. Certi intellettuali estremisti criticano ai film il loro semplificare le storie, basti pensare agli stucchevoli dibattiti sulle differenze tra libri e film o le pedanti affermazioni del tipo «il libro era più bello»: queste semplificazioni insite nel cinema comportano in verità anche dei vantaggi. Non siamo sicuri che una storia sia istruttiva in proporzione alla sua complessità. Certo cinema d'essai sfiora pericolosamente la sterilità autoreferenziale perché parla ad un pubblico colto e sembra mirare solo alla non-banalità.
La storia di Sawyer ci conferma proprio la fertilità inesauribile di questa arte, anche nelle sue forme più popolari e accessibili. Il discrimine sta nel modo in cui viene utilizzato il mezzo: ci sono autori che sanno istruire profondamente pur riuscendo a far divertire, sortendo magari effetti migliori di lunghe lezioni frontali che entrano da una parte ed escono dall'altra. Non stiamo dicendo di alleggerire i programmi ministeriali, ma magari completarli ogni tanto con la visione di alcune pellicole altamente istruttive. Ad esempio, la filmografia di Miyazaki farebbe solo bene ai nostri fanciulli che crescono.